La Commissione europea dovrebbe avere un Commissario UE alla Finanze. Mario Draghi sarebbe il candidato ideale
La lettera inviata al Financial Times da Mario Draghi, ex Presidente BCE, ex Bankitalia, mostra che i tempi sono maturi. L’Europa è in grave difficoltà, mentre il Presidente Trump ha varato un piano da 2 trilioni di dollari, che va a sommarsi all’intervento della FED, per superare l’emergenza da Coronavirus, la pandemia che potrebbe innescare una recessione su scala globale e una Grande Depressione per chi non corre ai ripari.
L’Unione europea (UE) sembra paralizzata dai 27 egoismi nazionali, mentre gli Stati si incartano in proposte considerate irricevibili dai vicini: gli Eurobond sono stati rifiutati dalla Germania di Merkel che fa gruppo con i Paesi del Nord, mentre sono guardati con favore da nove Stati europei, Belgio compreso, capitanati dalla Francia di Macron, l’Italia di Conte e la Spagna di Sanchez, i Paesi fra l’altro più colpiti dalla pandemia. Solo l’Italia ha registrato un terzo delle morti mondiali per Coronavirus.
Questa volta la crisi non è stata innescata dai conti in disordine di uno Stato, dal momento che, al netto degli atavici errori italiani (la spesa improduttiva per foraggiare Alitalia, Atac, un centinaio di inutili partecipate, Quota 100, un Rd mal disegnato e mille sprechi in ogni direzione), l’Italia si è presentata con un deficit/Pil all’1,6%, di tutto rispetto anche agli occhiuti falchi tedeschi, olandesi e finlandesi.
La soluzione, ha spiegato Mario Draghi al Financial Times (FT), è non considerare il debito un tabù e varare subito una nuova politica economica dal momento che “siamo in guerra e se esitiamo i costi saranno irreversibili”. L’Europa dovrebbe ripensare un modello di sviluppo investendo in maniera incisiva nei settori strategici. Per questo motivo gli Eurobond (battezzati in un primo tempo Coronabond) sarebbero lo strumento principe. Fra l’altro, lo smart working e la scuola digitale hanno messo in luce l’urgenza della banda larga e ultralarga, oltre a investimenti nella sanità (in Italia l’epidemia ha messo in luce l’assenza di posti in Terapia Intensiva, ICU) e nelle infrastrutture.
La crisi in atto ha dimostrato che è giunta l’ora di avere un Commissario UE alle Finanze. E il candidato ideale per essere nominato “ministro europeo” delle Finanze sarebbe Mario Draghi, colui che salvò l’euro nel 2012 pronunciando le tre celebri parole (“Whatever it takes”, a qualsiasi costo) e mettendo a punto una strategia efficace, con umiltà, pragmatismo e coraggio, dimostrando che alle parole sarebbero seguiti i fatti.
Dunque, in Europa è giunta l’ora di trovare un accordo fra Stati per integrare il trattato di Lisbona, istituire la figura del nuovo Commissario europeo alle Finanze, in modo da innescare processi di maggiore convergenza, portando la governance dell’Eurozona su un binario finalmente solido perché rafforzerebbe il coordinamento istituzionale con la BCE, superando le difficoltà incontrate durante l’implementazione dell’Unione bancaria. In prospettiva, ciò avrebbe un forte impatto anche sulle dinamiche di tax roll e sarebbe un primo passo nella direzione dell’Unione Fiscale.
La pandemia, con il suo tragico carico di vittime e di crisi economica dovuta al lockdown, è un’ultima chiamata per l’Europa, dopo gli errori commessi da Lagarde (superati con l’intervento incisivo della BCE) e la risposta sbagliata del Presidente von der Leyen, due donne che non si sono dimostrate all’altezza della situazione, ma che possono dimostrare di imparare la lezione, per voltare pagina e costruire un’Europa più solidale e unita in grado di affrontare le sfide di una Grande Depressione che, finito il contenimento, rimane pericolosamente in agguato. Il vero spettro che s’aggira per l’Europa. Il momento del coraggio è adesso. Mario Draghi ha le idee chiare e la capacità di persuasione tali da far capire a tutti quali rischi corriamo se non facciamo la cosa giusta ora. Prima che sia troppo tardi, perché nessuno si salva da solo, come hanno detto Papa Francesco e il Presidente Mattarella, sulla scia delle evocative esortazione di Draghi.
La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen
Con i primi due contagiati a Cipro, tutta la UE è colpita dal Coronavirus. Il prezzo del petrolio crolla da giorni: il -31% di oggi è il peggior calo dall’epoca della Guerra del Golfo. La Borsa di Milano, in caduta verticale, ha vissuto un lunedì nero, toccando -11,17%, con molti titoli sospesi per eccesso di ribasso, mentre lo Spread è balzato a 227 punti. Ma Francoforte, Parigi e pure la Londra della Brexit viaggiano in profondo rosso_ -8%, mentre l’oro schizza in su (48 euro al grammo), anche Wall Street è partita in forte ribasso, con una sospensione delle contrattazioni che non si vedeva dal 2008, ai tempi della piena crisi finanziaria post Lehman Brothers. Per la prima volta l’OMS parla di minaccia di pandemia. Il MEF promette un’azione vigorosa e temporanea per evitare danni permanenti all’economia, come ha chiesto il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Anche il falco Drombovskis ha promesso un intervento imminente: l’Eurozona è pronta ad usare altri strumenti. Del resto, è chiaro a tutti: il Coronavirus non conosce frontiere, si diffonde rapidamente e uniti si vince, divisi ci si contagia e si rischia grosso. Sul fronte della salute pubblica, ma anche dell’economia e della finanza.
Vuoto ed incertezza stanno generando panico nei mercati, come dopo le torri gemelle o il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers. Da sempre l’Europa ha compiuto uno scatto d’orgoglio sull’orlo del baratro. Il “Whatever it takes” di Mario Draghi, allora Presidente della BCE, arrivò mentre lo Spread divorava le speranze degli italiani.
Intanto il crollo del traffico aereo sta mettendo in ginocchio il turismo, a causa della restrizione dei movimenti per contenere la diffusione del Coronavirus.
Ci chiediamo se sia l’ora più buia. La Germania, con bilancio in pareggio e debito basso, è il Paese con maggiori capacità e responsabilità. La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il capo della BCE Lagarde, successore di Draghi, devono prendere decisioni importanti: oggi sono chiamate a fare la storia, perché – ormai è evidente a tutti – uniti si vince, divisi si perde. Le rivolte dei carcerati sui tetti degli istituti di pena italiani, le scene di panico nei supermercati a Londra, l’assalto ai treni per il Sud degli immigrati pugliesi e campani alla stazione di Milano (in Puglia sfiorano i 10mila i fuggiti dalle zone rosse, senza permesso) sono solo alcuni esempi dello scenario in cui ci stiamo muovendo.
Forse, alla fine dell’epidemia (che secondo l’OMS ormai sembra trasformarsi in pandemia e Moody’s teme che pandemia faccia rima con recessione), ci sarà un mondo pre-Covid-19 e un mondo post-Coronavirus. Adesso è l’ora di restare a casa per arginare la diffusione del virus che rischia di mettere a soqquadro il sistema sanitario nazionale (SSN), ma già domani servirà una sferzata all’economia per evitare danni consistenti e permanenti all’Italia, all’Eurozona e all’economia globale. Serve un Whatever it takes – non a parole, ma nei fatti – anche nelle scelte a Bruxelles. Fra l’altro, in Grecia, al confine con la Turchia, la crisi dei migranti è feroce e pare giunto il momento di iniziare da un comune esercito europeo, mentre la NaTO è paralizzata da uno scontro internop fra turchi e greci, per proseguire con un lancio di Eurobond (non per fare vaccate come Quota 100!), dedicato a infrastrutture – anche digitali! – europee e per una sanitàUE (è l’ora di delegare sovranità a Bruxelles anche in questo settore) e per salvare le PMI in Eurozona eccetera. Winston Churchill, nell’ora più buia, promise lacrime e sangue per conseguire la vittoria. In Europa l’emergenza Coronavirus fa paura, ma proprio per questo, serve un coraggioso scatto in avanti: è l’ora della fiducia comune per dare un futuro di speranza e stabilità al Vecchio Continente. Presidente von der Leyen, ci stupisca e faccia la storia d’Europa. Noi siamo europei e la sosterremo. A qualunque costo.
Cari italiani, in questo momento difficile, voglio dirvi che non siete soli. L’Italia è parte dell’Europa, e l’Europa soffre con l’Italia. In 🇪🇺siamo tutti italiani. The @EU_Commission will channel several billions of € to 🇮🇹 to help SMEs, healthcare sector & the people #COVID19pic.twitter.com/2ZN4qXz61Y
La vittoria di Boris Johnson in UK asfalta il nuovo ex Papa Straniero di PD-LeU, Jeremy Corbyn (nella foto, ritratto accanto a Pietro Grasso, ex Presidente del Senato e già a capo di Liberi e Uguali, LEU, alle elezioni 2013), oggi il grande sconfitto delle elezioni in UK del 12 dicembre 2019, asfaltato dalla voglia di Brexit presso la classe operaia britannica. In Italia era stato magnificato per anni da LEU – e da una parte consistente del PD – come uno dei nuovi leader a cui ispirarsi per rifondare la sinistra italiana, soprattutto dopo l’uscita dal partito da parte di Matteo Renzi, il Tony Blair italiano, bollato come un “corpo estraneo” da espellere per tornare a vincere, riconquistando le pecorelle smarrite che avevano seguito i pifferai magici del M5S. Corbyn, il Papa Straniero, l’ultimo di una lunga serie che annovera nomi come Zapatero e perfino Hollande, tutti leader finiti nell’oblio.
Non sappiamo ancora quale destino attenda Jeremy Corbyn, il grigio politico della Sinistra Novecentesca che sembra uscito da un sit-in anni ’60, un ectoplasma di una Tv analogica a tubo catodico, un insipido personaggio di una pellicola in celluloide di Ken Loach, ed oggi Grande Sconfitto alle elezioni del 12 dicembre, fino a ieri osannato come raro, se non unico fulgido faro del fu Socialismo mondiale insieme a Bernie Sanders (che almeno scalda gli animi delle giovani generazioni tecnologiche negli USA), un leader così carismatico da riuscire a perdere seggi che erano saldamente rossi da cent’anni (in oltre un secolo di gloriosa storia dei laburisti britannici!) ed oggi si sono bruscamente risvegliati dal sonno del ‘900, ridipinti blu Tories. Il colore dell’anno Pantone 2020. Non sappiamo ancora quale sarà il ruolo del partito laburista dopo la sonora sconfitta di ieri, ma soprattutto non abbiamo la palla di cristallo per prevedere il futuro della Gran Bretagna durante e dopo la Brexit, anticipare le ambizioni di Boris Johnson, che da domani, scolata l’ultima bottiglia di prosecco (il bestseller dell’export italiano, presto colpito dai dazi, frutto del tramonto del Mercato unico europeo nell’era del Leave) sarà impegnato in una – fantomatica e ricca di incognite – ri-costruzione della Special Relationship che dai tempi della II guerra mondiale lega il Regno Unito agli Stati Uniti, oggi guidati dall’umorale Presidente Donald Trump, il Potus che un giorno pare appoggiare Salvini e, dopo una manciata di settimane, al primo allarme sul debito italiano e su presunte interferenze russe, appoggia “Giuseppi Conte” in un governo che butta a mare, come un vecchio barcone usato, il leader leghista… Ma se non sappiamo che fine farà la Little Britain di Johnson dopo l’uscita dall’Unione europea, non siamo neanche in grado di intuire fino in fondo l’effetto del voto di ieri nell’orgogliosa, europeista Scozia che, in massa, ha votato – di nuovo – per il Remain, ribadendo il rifiuto di seguire le orme di Londra nella terra incognita della Brexit, anche in un’elezione politica che – de facto – si è rivelata un secondo Referendum dopo quello del 2016, e un voto di pancia pro isolazionismo, sulla scia delle vittorie di Trump – Bolsonaro – e, forse un giorno chissà, proprio di quel Salvini, tanto imitato e portato ad esempio nella galassia sovranista, quanto impossibilitato a governare finché il governo Conte 2, la vendetta, dura e finché Bruxelles comanda. Perché, ammettiamolo: le elezioni di ieri in UK non erano le politiche, bensì le anti-europee: i sudditi di Sua Maestà hanno votato, ancora una volta, per il divorzio da Bruxelles, per uscire finalmente, senza sconti e ipocrisie, senza fraintendimenti o trucchi alla maniera di Theresa May dall’odiata Unione europea (UE). Ma non solo. Di più. Il voto di ieri è stata anche l’uscita dal Secolo scorso, uno schiaffo – forse fatale – al Novecento, alle obsolete, ma oggi forse defunte ideologie del secolo scorso, che, breve o no, ha segnato i decenni delle lotte operaie, lasciando in eredità la costruzione del Welfare (quello cui il Regno Unito potrebbe essere costretto a rinunciare per diventare provincia oltremare dell’impero americano?) e i cortei per i diritti civili, il femminismo, la contrapposizione fra socialismo e liberalismo politico (liberista in economia) di Margaret Thatcher. Il voto per l’isolazionista Johnson è stato un voto contro Corbyn e una (definitiva?) exit dal confuso e immaginario progetto vetero-marxista del partito laburista di questi ultimi anni, un mix di anti-capitalismo d’antan, polverosi, ma faraonici piani di nazionalizzazioni a raffica, anti-semitismo travestito da anti-sionismo e un’accozzaglia di slogan che sfioravano l’anacronismo negli anni ’60, ma ai giovani di oggi devono apparire come chincaglierie dei tempi delle Guerre Puniche. Residuati bellici da cestinare nell’indifferenziato.
E così anche il glorioso partito laburista finisce in soffitta, come già era successo a Marx ai tempi d’oro del Labour, e, per venire ai nostri giorni, al Partito Socialista francese, ridotto al lumicino dopo la fallimentare presidenza Hollande, alla Socialdemocrazia tedesca, sorpassata dai giovani Verdi, e a tanti altri piccoli o ex grandi partiti della storia socialista europea su cui ieri è calato, forse definitivamente, il sipario della storia (citofonare a LEU e a Sinistra Italiana che galleggiano in fondo a tutti i sondaggi).
I cittadini britannici hanno espresso il loro appoggio ai Conservatori guidati dall’istrionico, ma da sempre, testardamente euroscettico Boris Johnson, e, contemporaneamente, respinto con forza il costosissimo e irrealizzabile piano di nazionalizzazioni neo-marxista dello sfidante laburista Corbyn, che ha subìto una sconfitta bruciante per aver spostato a sinistra il Labour che fu di Tony Blair, il teorico della Terza Via, colui che, con oltre un decennio di ritardo, in Italia aveva ispirato Matteo Renzi, un altro ex leader, oggi crollato al 4-5% dei sondaggi contro il 40% conquistato all’apice del successo della sua meteora politica nelle elezioni europee del 2014, il Senatore di Pontassieve i cui sogni di gloria si infransero in un altro disastroso Referendum (questa volta di riforma Costituzionale) nel 2016, come già era stato spazzato via Cameron, travolto dallo tsunami sovranista ed euroscettico nel Referendum contro il Remain in EU che ha fatto da humus politico-culturale per le vittorie di Trump (e terreno di prove tecniche di propaganda digitale mirata sugli indecisi) e dei suoi alleati immaginari, quei sovranisti, nazionalisti o quanto meno isolazionisti, che oggi siedono ai vertici dei rispettivi governi in UK (con BoJo), Brasile (con Bolsonaro), Filippine (con Duterte), Giappone (con Abe), India (con Modi) eccetera. Il Fronte Sovranista del Nuovo Ordine Mondiale anti-cinese.
Paura, istinti, pancia, propaganda. L’ennesima rivolta “dal basso”, manipolata dall’alto, attraverso un’oliata macchina propagandistica che sfrutta la Rete in maniera distopica e i social media in maniera chirurgica, gettata a tutta velocità e con una potenza di fuoco enorme contro la politica grigia della politique politicienne e le vetuste élite e che in UK ha mandato a casa prima Cameron, sconfitto insieme a tutti i Remainer nel Referendum contro l’Europa, e ora anche il (mai-stato-europeista ma senza dubbio) ideologo neo-marxista Corbyn, l’ex Papa Straniero che aveva affascinato anche la sinistra-centro italiana, in eterna caccia d’identità dopo la Grande Crisi del 2009-2011, forgiato dal rigetto delle privatizzazioni Thatcheriane, la cui politica industriale faceva perfino impallidire i già iperuranici e insostenibili piani del M5S e LEU (insieme a pezzi di classe dirigente dalemian-bersaniana del PD di Zingaretti) per nazionalizzare l’ex Ilva di Taranto, le Autostrade per l’Italia e la fallimentare Alitalia, già ribattezzata (F)al(l)italia, un carrozzone che, solo in una manciata di decenni, ha bruciato una decina di miliardi di euro, in un falò delle vanità aspirazionali del Paese che vanta il terzo debito pubblico al mondo e una crescita asfittica, maglia nera in Eurozona, da oltre vent’anni.
Con il voto di ieri, la Brexit finalmente esce dai sogni fumosi e acquista concretezza, finirà per rappresentare una cesura, ma perfino un’opportunità, se la UE, guidata dalla nèo-eletta Commissione di Ursula von der Leyen, saprà cogliere. Potremo davvero toccare con mano cosa significa uscire-dall’-Europa, una frase così vaga da diventare un feticcio per gli agiografi Sovranisti di tutta Europa, escluso il Gruppo di Visegrad che agli investimenti europei si guarda bene dal voler rinunciare, e un mantra per gli euro-scettici italiani guidati da Borghi, Bagnai e Rinaldi, la cui guerra all’euro (e in questi giorni al MES, il meccanismo di stabilità) è il vero vessillo brandito come una clava, o la spada di Alberto da Giussano che scintilla spavalda dagli spilloni che spiccano sul bavero delle giacche dei leader leghisti, per mandare in frantumi l’Europa unita e l’euro, la moneta comune che ha sconquassato le politiche monetarie e pure certi sogni imperali di Trump. Ma questa è un’altra storia.
Oggi in mille pezzi finisce l’Utopia Socialista, l’ideologia novecentesca, quella che voleva combattere le disuguaglianze, a favore della lotta di classe, contro le privatizzazioni, la Globalizzazione, il capitalismo (nell’accezione neo-liberista ma non solo), cullandosi nell’idea di tornare alle Piccole Patrie e alle nazionalizzazioni di cui quasi nessuno, tranne una certa sinistra italiana, sente alcuna nostalgia. Quel vetero-marxismo delle fotografie color seppia alla Ken Loach che si è infranto contro il Protezionismo isolazionista di Boris Johnson, il nuovo alfiere del Progetto Sovranista di Trump. Tramonta il sol dell’avvenire, che si è dimostrato, fin dai suoi esordi, fin dagli anni ’20 del secolo scorso, il miglior alleato e il vero trampolino di lancio delle destre occidentali. Exit. Sipario. Quello che sta per aprirsi è un nuovo capitolo, dove protagonisti saranno i nazionalisti scozzesi (sarà la Scozia la New Catalogna, europeista ma pronta a divorziare da Londra?) e soprattutto i giovani europei che, seguaci smarriti dell’attivista ambientalista Greta Thunberg o del nuovissimo movimento tricolore delle Sardine, stanno creando smottamenti e sommovimenti nell’area di sinistra della scena globale l’una, nazionale l’altra, uniti dal fil rouge dell’uso sapiente della Rete, dell’engagement social, dell’eco-sensibilità Green e dal rifiuto dell’Hate Speech e dell’approccio anti-scientifico (dei negazionisti del climate change, dei no vax eccetera) che invece accomunano tutti i sovranisti sullo scacchiere mondiale. Sipario: il marxismo è morto, ma la lotta per i Nuovi Diritti delle nuove generazioni (contro l’odio – contro il negazionismo climatico eccetera) è più viva che mai. E va dal Cile ad Hong Kong, ma anche dalla Catalogna alla Scozia. Il futuro è loro? Intanto parla i linguaggi (anche informatici) del XXI secolo.