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Lo Smartworking sta ridisegnando le città e il rapporto centro vs. periferia

Aree economicamente depresse potrebbero ripopolarsi, grazie ai trasferimenti di residenza, riequilibrando la geografia dell’afflusso della ricchezza

Photo by Serpstat on Pexels.com

Anche nel recente Referendum sul taglio dei Parlamentari, la vittoria a valanga per il Sì ha riacceso i fari sul tema – già ampiamente dibattuto ai tempi del Referendum britannico sulla Brexit, del Referendum Costituzionali perso da Renzi e della vittoria di Trump nelle Presidenziali USA del 2016 – del rapporto fra Centro (le aree Ztl dove vivono le élite) e Periferie (dove ribolle la frustrazione della Classe Media impoverita e la rabbia anti-élite in cui si crogiola il cosiddetto Populismo). Ne ha già parlato con grande competenza Dario Di Vico sul Corriere della Sera, dunque non mi dilungherò ulteriormente, invece, qui su Malatempora, vorrei osservare come lo Smartworking sta ridisegnando le città e il rapporto centro vs. periferia.

Lo Smartworking, che poi non è il telelavoro, ma una riorganizzazione del lavoro agile, laddove è ben fatto, ha generato un incremento della produttività. In UK, dove per altro la seconda ondata è così severa da costringere il Primo ministro Boris Johnson a prendere nuove misure drastiche per limitare la diffusione della pandemia da Covid-19, l’agenzia pubblicitaria Pablo London ha dichiarato che la sua produttività è talmente aumentata da prendere una storica decisione: rinunciare ai tradizionali spazi in ufficio e devolvere quanto risparmiato per l’affitto a charity dedicate ai senza tetto. Saranno gli homeless, gli ultimi degli ultimi, in grande aumento a causa della quarantena e dalla recessione innescata dalla crisi sanitaria, a guadagnare dallo Smartworking.

Il lavoro agile spalanca porte in un mondo nuovo, aprendo davvero scenari inediti nelle nostre città, dove i centri si erano svuotati per effetto del fenomeno della Gentrification. Per i tanti bar che vivevano vendendo caffè, aperitivi e tramezzini ai lavoratori degli uffici delle zone Ztl, lo Smartworking è una tragedia, ma un conto è trovare una soluzione, anche con progetti di formazione per i dipendenti che stanno perdendo il lavoro, un altro è denigrare un fenomeno dalle interessanti potenzialità. Ma l’esperimento socio-economico del Lockdown sta davvero rimescolando le carte.

Abitare lontano dai posti di lavoro, lavorando da remoto, magari in piccoli centri con un minor costo della vita e una qualità della vita più alta, sta diventando un’opzione interessante per molte persone e famiglie. Il modello di sviluppo policentrico potrebbe tornare di moda, ripopolando campagne e piccoli centri che negli anni si erano spopolati.

Questo fenomeno, al momento in fieri, potrebbe sconquassare quelle gerarchie urbane fra centro e periferia che dominavano fin dalla prima Rivoluzione Industriale, portando masse di contadini nelle periferie cittadine per diventare operai nelle fabbriche e andare a ingrossare i palazzi di periferia urbana. Da sempre, le città attraggono capitale umano, forti della loro storia e della cultura, dei servizi offerti, delle infrastrutture avveniristiche, degli atenei secolari in grado di attrarre talenti e di catalizzare scambi di idee, delle piazze finanziarie dove girando i Grandi Capitali, dei fiorenti commerci capaci di far girare l’economia. Il successo di una città è dovuto alla sua posizione geografica: pensiamo al ruolo delle reti fluviali, in grado di garantire l’approvigionamento alimentare e lo sbocco commerciale di merci, e di tagliare i costi per raggiungere i mercati finali. Le gerarchie urbane, da sempre dinamiche, hanno visto in Francia radicarsi un modello di sviluppo centralizzato, che parte a raggiera da Parigi, mentre in Germania è sbocciato il modello diffuso del sistema federale. Poi, le alterne vicende di una città ne hanno decretato l’influenza o meno, seguendo i corsi e ricorsi della storia.

A produrre un primo grande ribaltamento delle gerarchie urbane è stata la globalizzazione, nella sua prima fase arrembante, quando a decidere tutto era la logistica delle aziende, interessate a ridurre i costi e massimizzare i profitti, spezzettando la produzione e l’assemblaggio in giro per il mondo. Il fattore Localizzazione, nell’era delle delocalizzazioni, è diventato secondario rispetto al fattore Aggregativo, tanto che – nel giro di una manciata di stagioni, città fino ad allora fiorenti e piene di vita diventavano d’un tratto Ghost city, città rese fatiscenti e fantasma dalla crisi innescata in un particolare settore industriale. Invece manteneva alto il suo status il fattore Aggregazione, dal momento che le professioni intellettuali traggono enorme vantaggio dalle interazioni sociali e culturali, l’humus ideale per far crescere rigogliosi hub tecnologici, poli finanziari, startup innovative.

Le città-Stato monocentriche hanno guadagnato terreno, popolarità ed influenza da questo modello di sviluppo che incoronava fulcri, in grado di attrarre capitali e talenti, mentre le periferie di questo sviluppo, le campagne e i poccoli centri, si svuotavano e la loro ricchezza si assottigliava, allargando il divario fra i vincenti della globalizzazione e i perdenti.

Ora lo Smartworking, con il suo carico da novanta posto sulla bilancia a vantaggio della produttività, sta ipotecando il ruolo della concentrazione urbana e del modello monocentrico. Se vengono privilegiate le brevi, ma intense riunioni su Zoom, rispetto ai lunghi, infruttuosi quotidiani incontri in ufficio, che senso ha ancora il fattore aggregativo? E che fine fa la concentrazione urbana in città affollate, inquinate e costose?

Il lavoro da remoto, grazie alla diffusione della banda ultra larga su tutto il territorio nazionale, può innescare lo spostamento dalle città ai piccoli centri, promuovendo lo sviluppo policentrico verso località minori, finora in declino economico e demografico, ma rese competitive nell’era dello Smartworking. I professionisti del lavoto agile potrebbero godere del maggior potere d’acquisto e di una qualità della vita più alta proprio nei piccoli centri e perfino in aree rurali, tutte raggiunte dall’e-commerce e dalla fibra FTTH.

Aree economicamente depresse potrebbero ripopolarsi, grazie ai trasferimenti di residenza, riequilibrando la geografia dell’afflusso della ricchezza. La concentrazione finanziaria in pochi grandi centri potrebbe diminuire, disseminando la ricchezza in tante località oggi periferiche che potrebbero conoscere una rinascita, demografica, economica e culturale, colmando quei divari che hanno gonfiato le vele in poppa ai populismi. La dicotomia fra zone Ztl/Periferie, fra centri urbani vs. campagne, potrebbe sfumare progressivamente con la minore concentrazione di ricchezza in poche mani, mentre i grandi centri urbani manterrebbero la loro influenza grazie alle sedi delle aziende, perché lo smartworking è delocalizzato, ma il lavoro no. Il lavoro da remoto, insomma, ridisegna le città, ma anche l’economia e la politica, rimescolando tutte le carte.

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Dieci ragioni più una per votare NO

Una delle argomentazioni più eccentriche addotte a sostegno della campagna per il Sì al Referendum sul taglio lineare dei Parlamentari è stato espresso dal segretario del PD, Nicola Zingaretti: il sì sarebbe una diga contro l’avanzata di Salvini e Meloni (che per altro appoggiano il fronte del sì, nonostante il no del leghista storico Giorgetti). Quindi, pur di impedire alle destre di vincere, siamo disposti a tutto, magari anche a posticipare le elezioni sine die? No, la motivazione non regge. Ma ci sono altre dieci buone ragioni per votare NO, vediamo quali, in ordine d’importanza.

  1. Dicono che una vittoria del NO porterebbe su un binario morto qualsiasi percorso di riforma. Si tratta di un argomento privo di fondamento. Il Parlamento ha votato più volte riforme costituzionali che non sono state sottoposte a referendum confermativo ed altre che sono state bocciate alle urne (Riforma governo Berlusconi 2006 – Riforma governo Renzi 2016). Il M5S è stato votato in massa nel marzo 2018 per varare le riforme: ha ricevuto una valanga di voti sull’onda del cambiamento, della trasparenza, della partecipazione per cambiare regole e condizioni della democrazia. L’afflato riformatore è dunque immutato, ma non è sufficiente perché le regole vanno fatte a garanzia di tutti, dal momento che delineano le regole che determinano come si gioca quando si scende in campo. La voglia di cambiamento c’è e rimane alta, ma è il momento di decidere “come” fare le riforme, non “se” farle.
  2. In questi tempi bui del CSM dopo lo scoppio del caso Palamare, vogliamo ricordare che il Parlamento si occupa anche della nomina dei giudici del CSM e della Corte Costituzionale. Riducendo il numero di parlamentari che effettua quelle elezioni, la riforma, voluta dal M5S e oggi sostenuta dal PD (dopo una clamorosa inversione ad U quando il partito guidato da Zingaretti è entrato nel governo giallo-rosso del Conte 2), appoggiata anche da FdI e Lega, fa sì che i gruppi di potere e le lobby potranno selezionare più facilmente nomi graditi. I giudici rappresentano una delle garanzie d’indipendenza di un sistema politico-istituzionale: .asciare la loro nomina in mano a meno persone non aumenta la loro autorevolezza né la rappresentatività.
  3. Nessuno illustra con lucidità il perché del taglio (lineare) di 345 parlamentari: alla fine, tutti rispondono che sono troppi e fannulloni, come se allora non sarebbe meglio tagliarne 570 o 615. I paragoni del Parlamento col Congresso USA oppure con la Germania, dunque con sistemi federali, per sottolineare l’anomalia italiana, non reggono. Toti, Presidente della Regione Liguria, afferma che questo taglio deve essere un primo passo verso una Costituzione federale con il potere legislativo, suddiviso fra Bundestag (Camera ad elezione popolare diretta che accorda o nega la fiducia all’Esecutivo federale) e Bundesrat (Consiglio federale che rappresenta i singoli Stati, i Länder). Ecco, durante la pandemia voi avreste affidato le decisioni di tutti i cittadini italiani al Presidente della Regione Lombardia Fontana che ha dato il meglio di sé nel duo con Gallera o al Presidente della Regione Sardegna, detto il “Trota sardo” perché vantava una laurea conseguita nel New Mexico non riconosciuta dal Miur, il cui “talento è esploso insieme al terrificante numero dei contagi che, ad agosto, hanno seminato il panico sull’isola, e non solo” (copyright Fabrizio Roncone)? A parte le facili battute, la vera domanda è chiedersi: cosa fa il Parlamento? Emana le leggi che sono fonte di certezza, di legalità, di garanzia che esista una democrazia che decide. Ecco, forse, prima di effettuare un taglio lineare, sarebbe bene riflettere su cosa stiamo decidendo Conoscere oer deliberare rimane una priorità, soprattutto in era di Fake News.
  4. Quando si propone una riforma strutturale si dovrebbero usare argomentazioni solide e ben fondate. L’posto di quelle sbandierate da chi ha votato e/o difende il taglio dei parlamentari, i cui argomenti si limitano a un poker di frasi apodittiche: ridurre i costi e tagliare gente inutile; o si riforma ora o mai più;- era già stato proposto (e per altro per due volte bocciato); così fan tutti (negli altri Stati, paragonando l’Italia con stati federali e sistemi molto diversi). Si tratta di motivazioni deboli se non addirittura capziose: i costi sono costi di democrazia e partecipazione, e pochi conoscono tutte le attività di un parlamentare e le sue responsabilità; le riforme si sono svolte nel tempo, anche del dettato costituzionale, magari senza passare per il referendum confermativo; ciò che è ri-proposto non vanta un titolo di merito (inoltre una riforma organica prevede anche altro rispetto a un mero taglio lineare); paragonare sistemi di rappresentanza parlamentare differente disorienta i cittadini sul ruolo del parlamento anche in ogni contesto nazionale (se poi ci riferiamo al Parlamento Ue si può osservare che il suo ruolo è mutato nel tempo senza citare il numero di rappresentanti per Stato come condizione di riforma).
  5. Tagliare il Parlamento per risparmiare è come tagliare gli ospedali per risparmiare. La motivazione non tiene. Dicono che è per tagliare i costi, ma, durante la pandemia, avremmo evitato il lockdown se avessimo avuto le Terapie Intensive che l’Italia vantava negli anni ’80. Con un tracollo del PIL mai visto in epoca di pace, siamo sicuri di aver risparmiato? Il debito/PIL passerà dal 134% al 160% entro fine anno.
  6. Con un Parlamento ridimensionato, una qualunque lobby, associazione di categoria o qualsiasi portatore di interessi (stakeholder) potrà avvicinare un eletto velocemente; e dovendo avvicinare meno parlamentari, dovrà convincere meno persone limitandosi a trattative più ristrette. Impiegherà meno tempo e risparmierà impegno per informare l’opinione pubblica. Meno persone deciderann di più, in luoghi più ristretti. A farne le spese sarà la trasparenza. In un Paese più volte bocciato sul tema corruzione da Transparency Report.
  7. Una grave lacuna dell’attività parlamentare è la scarsa attenzione data alle proposte di iniziativa popolare. Quante volte si sono raccolte le firme per sollecitare l’azione legislativa, senza alcun risultato, perché tutto finiva su un binario morto? Un progetto di riforma (e non di taglio!) della rappresentanza diretta dovrebbe incidere su questo aspetto non marginale del coinvolgimento dei cittadini nell’azione politica. Rendendo effettivo l’art. 71 della Costituzione, uno dei meno attuati e considerati da sempre. Sarebbe fondamentale offrire spazio e forza ai cittadini, non di tagliare i Parlamentari.
  8. In questi decenni abbiamo visto eletti in Parlamento dediti a fare di tutto tranne che il loro mestiere di parlamentare. Un esempio per tutti: l’avvocato Ghedini, che più che il parlamerntare svolgeva il ruolo di legale dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Un avvocato che ha lavorato molto per il suo assistito, ma scarsamente per la carica che ricopriva in Parlamento. Ecco, tagliando il numero dei parlamentari, nulla dice che andrà a migliorare la qualità. Anzi, il rischio è che i partiti premino i più fedeli invece dei più bravi. Il criterio della fedeltà vincerò su quello della meritocrazia, perché la Sindrome del Cerchio Magico – a protezione del Capo – avrà la meglio. Neanche in economia Piccolo è Bello, fidatevi.
  9. Non è il numero di persone impegnate in una funzione specifica a determinare il risultato, ma la qualità dell’impegno profuso e la capacità di recepire segnali e idee che provengono dal Paese. Se il Parlamento non può contare su persone competenti, preparate e dedite all’impegno assunto, non può migliorare la qualità della democrazia. L’argomento del taglio dei parlamentari è insulso: nulla ci dice sulla selezione dei rappresentanti e nulla cambia nella qualità della rappresentanza, se, oltre al taglio, non inciderà una differente selezione della rappresentanza.
  10. I partiti forgiati dagli eventi della storia della nostra democrazia hanno abusato della rappresentanza per mettere a posto se stessi ed inquinare la rappresentanza. Sono gli stessi che ora ci chiedono di ripensare alla democrazia secondo i loro criteri. Intanto siedono in questo Parlamento e in tutto ciò che da esso dipende: nomine, incarichi e rappresentanza. Abbiamo ministri che hanno messo amici e famigli, privi di competenze, in un ministero tecnico. E quando i posti non bastano, perché non bastano mai in un Paese dove oltre 1,5 milioni di persone vive di politica, si piazzano comodamente su poltrone di società e municipalizzate che dipendono dalla politica. Quelle partecipate che pesano sul debito e nessuno osa tagliare. E tutto ciò, questo poco virtuoso andazzo, potrà cambiare tagliando l’espressione diretta del voto? Perché è appunto come si usa la democrazia che cambia tutto, non certo l’idea che la rappresentanza sia troppa e ingiustificata.

Loris Jep Costa e Mirella Castigli

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