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Dieci ragioni più una per votare NO

Una delle argomentazioni più eccentriche addotte a sostegno della campagna per il Sì al Referendum sul taglio lineare dei Parlamentari è stato espresso dal segretario del PD, Nicola Zingaretti: il sì sarebbe una diga contro l’avanzata di Salvini e Meloni (che per altro appoggiano il fronte del sì, nonostante il no del leghista storico Giorgetti). Quindi, pur di impedire alle destre di vincere, siamo disposti a tutto, magari anche a posticipare le elezioni sine die? No, la motivazione non regge. Ma ci sono altre dieci buone ragioni per votare NO, vediamo quali, in ordine d’importanza.

  1. Dicono che una vittoria del NO porterebbe su un binario morto qualsiasi percorso di riforma. Si tratta di un argomento privo di fondamento. Il Parlamento ha votato più volte riforme costituzionali che non sono state sottoposte a referendum confermativo ed altre che sono state bocciate alle urne (Riforma governo Berlusconi 2006 – Riforma governo Renzi 2016). Il M5S è stato votato in massa nel marzo 2018 per varare le riforme: ha ricevuto una valanga di voti sull’onda del cambiamento, della trasparenza, della partecipazione per cambiare regole e condizioni della democrazia. L’afflato riformatore è dunque immutato, ma non è sufficiente perché le regole vanno fatte a garanzia di tutti, dal momento che delineano le regole che determinano come si gioca quando si scende in campo. La voglia di cambiamento c’è e rimane alta, ma è il momento di decidere “come” fare le riforme, non “se” farle.
  2. In questi tempi bui del CSM dopo lo scoppio del caso Palamare, vogliamo ricordare che il Parlamento si occupa anche della nomina dei giudici del CSM e della Corte Costituzionale. Riducendo il numero di parlamentari che effettua quelle elezioni, la riforma, voluta dal M5S e oggi sostenuta dal PD (dopo una clamorosa inversione ad U quando il partito guidato da Zingaretti è entrato nel governo giallo-rosso del Conte 2), appoggiata anche da FdI e Lega, fa sì che i gruppi di potere e le lobby potranno selezionare più facilmente nomi graditi. I giudici rappresentano una delle garanzie d’indipendenza di un sistema politico-istituzionale: .asciare la loro nomina in mano a meno persone non aumenta la loro autorevolezza né la rappresentatività.
  3. Nessuno illustra con lucidità il perché del taglio (lineare) di 345 parlamentari: alla fine, tutti rispondono che sono troppi e fannulloni, come se allora non sarebbe meglio tagliarne 570 o 615. I paragoni del Parlamento col Congresso USA oppure con la Germania, dunque con sistemi federali, per sottolineare l’anomalia italiana, non reggono. Toti, Presidente della Regione Liguria, afferma che questo taglio deve essere un primo passo verso una Costituzione federale con il potere legislativo, suddiviso fra Bundestag (Camera ad elezione popolare diretta che accorda o nega la fiducia all’Esecutivo federale) e Bundesrat (Consiglio federale che rappresenta i singoli Stati, i Länder). Ecco, durante la pandemia voi avreste affidato le decisioni di tutti i cittadini italiani al Presidente della Regione Lombardia Fontana che ha dato il meglio di sé nel duo con Gallera o al Presidente della Regione Sardegna, detto il “Trota sardo” perché vantava una laurea conseguita nel New Mexico non riconosciuta dal Miur, il cui “talento è esploso insieme al terrificante numero dei contagi che, ad agosto, hanno seminato il panico sull’isola, e non solo” (copyright Fabrizio Roncone)? A parte le facili battute, la vera domanda è chiedersi: cosa fa il Parlamento? Emana le leggi che sono fonte di certezza, di legalità, di garanzia che esista una democrazia che decide. Ecco, forse, prima di effettuare un taglio lineare, sarebbe bene riflettere su cosa stiamo decidendo Conoscere oer deliberare rimane una priorità, soprattutto in era di Fake News.
  4. Quando si propone una riforma strutturale si dovrebbero usare argomentazioni solide e ben fondate. L’posto di quelle sbandierate da chi ha votato e/o difende il taglio dei parlamentari, i cui argomenti si limitano a un poker di frasi apodittiche: ridurre i costi e tagliare gente inutile; o si riforma ora o mai più;- era già stato proposto (e per altro per due volte bocciato); così fan tutti (negli altri Stati, paragonando l’Italia con stati federali e sistemi molto diversi). Si tratta di motivazioni deboli se non addirittura capziose: i costi sono costi di democrazia e partecipazione, e pochi conoscono tutte le attività di un parlamentare e le sue responsabilità; le riforme si sono svolte nel tempo, anche del dettato costituzionale, magari senza passare per il referendum confermativo; ciò che è ri-proposto non vanta un titolo di merito (inoltre una riforma organica prevede anche altro rispetto a un mero taglio lineare); paragonare sistemi di rappresentanza parlamentare differente disorienta i cittadini sul ruolo del parlamento anche in ogni contesto nazionale (se poi ci riferiamo al Parlamento Ue si può osservare che il suo ruolo è mutato nel tempo senza citare il numero di rappresentanti per Stato come condizione di riforma).
  5. Tagliare il Parlamento per risparmiare è come tagliare gli ospedali per risparmiare. La motivazione non tiene. Dicono che è per tagliare i costi, ma, durante la pandemia, avremmo evitato il lockdown se avessimo avuto le Terapie Intensive che l’Italia vantava negli anni ’80. Con un tracollo del PIL mai visto in epoca di pace, siamo sicuri di aver risparmiato? Il debito/PIL passerà dal 134% al 160% entro fine anno.
  6. Con un Parlamento ridimensionato, una qualunque lobby, associazione di categoria o qualsiasi portatore di interessi (stakeholder) potrà avvicinare un eletto velocemente; e dovendo avvicinare meno parlamentari, dovrà convincere meno persone limitandosi a trattative più ristrette. Impiegherà meno tempo e risparmierà impegno per informare l’opinione pubblica. Meno persone deciderann di più, in luoghi più ristretti. A farne le spese sarà la trasparenza. In un Paese più volte bocciato sul tema corruzione da Transparency Report.
  7. Una grave lacuna dell’attività parlamentare è la scarsa attenzione data alle proposte di iniziativa popolare. Quante volte si sono raccolte le firme per sollecitare l’azione legislativa, senza alcun risultato, perché tutto finiva su un binario morto? Un progetto di riforma (e non di taglio!) della rappresentanza diretta dovrebbe incidere su questo aspetto non marginale del coinvolgimento dei cittadini nell’azione politica. Rendendo effettivo l’art. 71 della Costituzione, uno dei meno attuati e considerati da sempre. Sarebbe fondamentale offrire spazio e forza ai cittadini, non di tagliare i Parlamentari.
  8. In questi decenni abbiamo visto eletti in Parlamento dediti a fare di tutto tranne che il loro mestiere di parlamentare. Un esempio per tutti: l’avvocato Ghedini, che più che il parlamerntare svolgeva il ruolo di legale dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Un avvocato che ha lavorato molto per il suo assistito, ma scarsamente per la carica che ricopriva in Parlamento. Ecco, tagliando il numero dei parlamentari, nulla dice che andrà a migliorare la qualità. Anzi, il rischio è che i partiti premino i più fedeli invece dei più bravi. Il criterio della fedeltà vincerò su quello della meritocrazia, perché la Sindrome del Cerchio Magico – a protezione del Capo – avrà la meglio. Neanche in economia Piccolo è Bello, fidatevi.
  9. Non è il numero di persone impegnate in una funzione specifica a determinare il risultato, ma la qualità dell’impegno profuso e la capacità di recepire segnali e idee che provengono dal Paese. Se il Parlamento non può contare su persone competenti, preparate e dedite all’impegno assunto, non può migliorare la qualità della democrazia. L’argomento del taglio dei parlamentari è insulso: nulla ci dice sulla selezione dei rappresentanti e nulla cambia nella qualità della rappresentanza, se, oltre al taglio, non inciderà una differente selezione della rappresentanza.
  10. I partiti forgiati dagli eventi della storia della nostra democrazia hanno abusato della rappresentanza per mettere a posto se stessi ed inquinare la rappresentanza. Sono gli stessi che ora ci chiedono di ripensare alla democrazia secondo i loro criteri. Intanto siedono in questo Parlamento e in tutto ciò che da esso dipende: nomine, incarichi e rappresentanza. Abbiamo ministri che hanno messo amici e famigli, privi di competenze, in un ministero tecnico. E quando i posti non bastano, perché non bastano mai in un Paese dove oltre 1,5 milioni di persone vive di politica, si piazzano comodamente su poltrone di società e municipalizzate che dipendono dalla politica. Quelle partecipate che pesano sul debito e nessuno osa tagliare. E tutto ciò, questo poco virtuoso andazzo, potrà cambiare tagliando l’espressione diretta del voto? Perché è appunto come si usa la democrazia che cambia tutto, non certo l’idea che la rappresentanza sia troppa e ingiustificata.

Loris Jep Costa e Mirella Castigli

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Brexit ed Exit… dalle ideologie!

La vittoria di Boris Johnson in UK asfalta il nuovo ex Papa Straniero di PD-LeU, Jeremy Corbyn (nella foto, ritratto accanto a Pietro Grasso, ex Presidente del Senato e già a capo di Liberi e Uguali, LEU, alle elezioni 2013), oggi il grande sconfitto delle elezioni in UK del 12 dicembre 2019, asfaltato dalla voglia di Brexit presso la classe operaia britannica. In Italia era stato magnificato per anni da LEU – e da una parte consistente del PD – come uno dei nuovi leader a cui ispirarsi per rifondare la sinistra italiana, soprattutto dopo l’uscita dal partito da parte di Matteo Renzi, il Tony Blair italiano, bollato come un “corpo estraneo” da espellere per tornare a vincere, riconquistando le pecorelle smarrite che avevano seguito i pifferai magici del M5S. Corbyn, il Papa Straniero, l’ultimo di una lunga serie che annovera nomi come Zapatero e perfino Hollande, tutti leader finiti nell’oblio.

Non sappiamo ancora quale destino attenda Jeremy Corbyn, il grigio politico della Sinistra Novecentesca che sembra uscito da un sit-in anni ’60, un ectoplasma di una Tv analogica a tubo catodico, un insipido personaggio di una pellicola in celluloide di Ken Loach, ed oggi Grande Sconfitto alle elezioni del 12 dicembre, fino a ieri osannato come raro, se non unico fulgido faro del fu Socialismo mondiale insieme a Bernie Sanders (che almeno scalda gli animi delle giovani generazioni tecnologiche negli USA), un leader così carismatico da riuscire a perdere seggi che erano saldamente rossi da cent’anni (in oltre un secolo di gloriosa storia dei laburisti britannici!) ed oggi si sono bruscamente risvegliati dal sonno del ‘900, ridipinti blu Tories. Il colore dell’anno Pantone 2020. Non sappiamo ancora quale sarà il ruolo del partito laburista dopo la sonora sconfitta di ieri, ma soprattutto non abbiamo la palla di cristallo per prevedere il futuro della Gran Bretagna durante e dopo la Brexit, anticipare le ambizioni di Boris Johnson, che da domani, scolata l’ultima bottiglia di prosecco (il bestseller dell’export italiano, presto colpito dai dazi, frutto del tramonto del Mercato unico europeo nell’era del Leave) sarà impegnato in una – fantomatica e ricca di incognite – ri-costruzione della Special Relationship che dai tempi della II guerra mondiale lega il Regno Unito agli Stati Uniti, oggi guidati dall’umorale Presidente Donald Trump, il Potus che un giorno pare appoggiare Salvini e, dopo una manciata di settimane, al primo allarme sul debito italiano e su presunte interferenze russe, appoggia “Giuseppi Conte” in un governo che butta a mare, come un vecchio barcone usato, il leader leghista… Ma se non sappiamo che fine farà la Little Britain di Johnson dopo l’uscita dall’Unione europea, non siamo neanche in grado di intuire fino in fondo l’effetto del voto di ieri nell’orgogliosa, europeista Scozia che, in massa, ha votato – di nuovo – per il Remain, ribadendo il rifiuto di seguire le orme di Londra nella terra incognita della Brexit, anche in un’elezione politica che – de facto – si è rivelata un secondo Referendum dopo quello del 2016, e un voto di pancia pro isolazionismo, sulla scia delle vittorie di Trump – Bolsonaro – e, forse un giorno chissà, proprio di quel Salvini, tanto imitato e portato ad esempio nella galassia sovranista, quanto impossibilitato a governare finché il governo Conte 2, la vendetta, dura e finché Bruxelles comanda. Perché, ammettiamolo: le elezioni di ieri in UK non erano le politiche, bensì le anti-europee: i sudditi di Sua Maestà hanno votato, ancora una volta, per il divorzio da Bruxelles, per uscire finalmente, senza sconti e ipocrisie, senza fraintendimenti o trucchi alla maniera di Theresa May dall’odiata Unione europea (UE). Ma non solo. Di più. Il voto di ieri è stata anche l’uscita dal Secolo scorso, uno schiaffo – forse fatale – al Novecento, alle obsolete, ma oggi forse defunte ideologie del secolo scorso, che, breve o no, ha segnato i decenni delle lotte operaie, lasciando in eredità la costruzione del Welfare (quello cui il Regno Unito potrebbe essere costretto a rinunciare per diventare provincia oltremare dell’impero americano?) e i cortei per i diritti civili, il femminismo, la contrapposizione fra socialismo e liberalismo politico (liberista in economia) di Margaret Thatcher. Il voto per l’isolazionista Johnson è stato un voto contro Corbyn e una (definitiva?) exit dal confuso e immaginario progetto vetero-marxista del partito laburista di questi ultimi anni, un mix di anti-capitalismo d’antan, polverosi, ma faraonici piani di nazionalizzazioni a raffica, anti-semitismo travestito da anti-sionismo e un’accozzaglia di slogan che sfioravano l’anacronismo negli anni ’60, ma ai giovani di oggi devono apparire come chincaglierie dei tempi delle Guerre Puniche. Residuati bellici da cestinare nell’indifferenziato.

E così anche il glorioso partito laburista finisce in soffitta, come già era successo a Marx ai tempi d’oro del Labour, e, per venire ai nostri giorni, al Partito Socialista francese, ridotto al lumicino dopo la fallimentare presidenza Hollande, alla Socialdemocrazia tedesca, sorpassata dai giovani Verdi, e a tanti altri piccoli o ex grandi partiti della storia socialista europea su cui ieri è calato, forse definitivamente, il sipario della storia (citofonare a LEU e a Sinistra Italiana che galleggiano in fondo a tutti i sondaggi).

I cittadini britannici hanno espresso il loro appoggio ai Conservatori guidati dall’istrionico, ma da sempre, testardamente euroscettico Boris Johnson, e, contemporaneamente, respinto con forza il costosissimo e irrealizzabile piano di nazionalizzazioni neo-marxista dello sfidante laburista Corbyn, che ha subìto una sconfitta bruciante per aver spostato a sinistra il Labour che fu di Tony Blair, il teorico della Terza Via, colui che, con oltre un decennio di ritardo, in Italia aveva ispirato Matteo Renzi, un altro ex leader, oggi crollato al 4-5% dei sondaggi contro il 40% conquistato all’apice del successo della sua meteora politica nelle elezioni europee del 2014, il Senatore di Pontassieve i cui sogni di gloria si infransero in un altro disastroso Referendum (questa volta di riforma Costituzionale) nel 2016, come già era stato spazzato via Cameron, travolto dallo tsunami sovranista ed euroscettico nel Referendum contro il Remain in EU che ha fatto da humus politico-culturale per le vittorie di Trump (e terreno di prove tecniche di propaganda digitale mirata sugli indecisi) e dei suoi alleati immaginari, quei sovranisti, nazionalisti o quanto meno isolazionisti, che oggi siedono ai vertici dei rispettivi governi in UK (con BoJo), Brasile (con Bolsonaro), Filippine (con Duterte), Giappone (con Abe), India (con Modi) eccetera. Il Fronte Sovranista del Nuovo Ordine Mondiale anti-cinese.

Paura, istinti, pancia, propaganda. L’ennesima rivolta “dal basso”, manipolata dall’alto, attraverso un’oliata macchina propagandistica che sfrutta la Rete in maniera distopica e i social media in maniera chirurgica, gettata a tutta velocità e con una potenza di fuoco enorme contro la politica grigia della politique politicienne e le vetuste élite e che in UK ha mandato a casa prima Cameron, sconfitto insieme a tutti i Remainer nel Referendum contro l’Europa, e ora anche il (mai-stato-europeista ma senza dubbio) ideologo neo-marxista Corbyn, l’ex Papa Straniero che aveva affascinato anche la sinistra-centro italiana, in eterna caccia d’identità dopo la Grande Crisi del 2009-2011, forgiato dal rigetto delle privatizzazioni Thatcheriane, la cui politica industriale faceva perfino impallidire i già iperuranici e insostenibili piani del M5S e LEU (insieme a pezzi di classe dirigente dalemian-bersaniana del PD di Zingaretti) per nazionalizzare l’ex Ilva di Taranto, le Autostrade per l’Italia e la fallimentare Alitalia, già ribattezzata (F)al(l)italia, un carrozzone che, solo in una manciata di decenni, ha bruciato una decina di miliardi di euro, in un falò delle vanità aspirazionali del Paese che vanta il terzo debito pubblico al mondo e una crescita asfittica, maglia nera in Eurozona, da oltre vent’anni.

Con il voto di ieri, la Brexit finalmente esce dai sogni fumosi e acquista concretezza, finirà per rappresentare una cesura, ma perfino un’opportunità, se la UE, guidata dalla nèo-eletta Commissione di Ursula von der Leyen, saprà cogliere. Potremo davvero toccare con mano cosa significa uscire-dall’-Europa, una frase così vaga da diventare un feticcio per gli agiografi Sovranisti di tutta Europa, escluso il Gruppo di Visegrad che agli investimenti europei si guarda bene dal voler rinunciare, e un mantra per gli euro-scettici italiani guidati da Borghi, Bagnai e Rinaldi, la cui guerra all’euro (e in questi giorni al MES, il meccanismo di stabilità) è il vero vessillo brandito come una clava, o la spada di Alberto da Giussano che scintilla spavalda dagli spilloni che spiccano sul bavero delle giacche dei leader leghisti, per mandare in frantumi l’Europa unita e l’euro, la moneta comune che ha sconquassato le politiche monetarie e pure certi sogni imperali di Trump. Ma questa è un’altra storia.

Oggi in mille pezzi finisce l’Utopia Socialista, l’ideologia novecentesca, quella che voleva combattere le disuguaglianze, a favore della lotta di classe, contro le privatizzazioni, la Globalizzazione, il capitalismo (nell’accezione neo-liberista ma non solo), cullandosi nell’idea di tornare alle Piccole Patrie e alle nazionalizzazioni di cui quasi nessuno, tranne una certa sinistra italiana, sente alcuna nostalgia. Quel vetero-marxismo delle fotografie color seppia alla Ken Loach che si è infranto contro il Protezionismo isolazionista di Boris Johnson, il nuovo alfiere del Progetto Sovranista di Trump. Tramonta il sol dell’avvenire, che si è dimostrato, fin dai suoi esordi, fin dagli anni ’20 del secolo scorso, il miglior alleato e il vero trampolino di lancio delle destre occidentali. Exit. Sipario. Quello che sta per aprirsi è un nuovo capitolo, dove protagonisti saranno i nazionalisti scozzesi (sarà la Scozia la New Catalogna, europeista ma pronta a divorziare da Londra?) e soprattutto i giovani europei che, seguaci smarriti dell’attivista ambientalista Greta Thunberg o del nuovissimo movimento tricolore delle Sardine, stanno creando smottamenti e sommovimenti nell’area di sinistra della scena globale l’una, nazionale l’altra, uniti dal fil rouge dell’uso sapiente della Rete, dell’engagement social, dell’eco-sensibilità Green e dal rifiuto dell’Hate Speech e dell’approccio anti-scientifico (dei negazionisti del climate change, dei no vax eccetera) che invece accomunano tutti i sovranisti sullo scacchiere mondiale. Sipario: il marxismo è morto, ma la lotta per i Nuovi Diritti delle nuove generazioni (contro l’odio – contro il negazionismo climatico eccetera) è più viva che mai. E va dal Cile ad Hong Kong, ma anche dalla Catalogna alla Scozia. Il futuro è loro? Intanto parla i linguaggi (anche informatici) del XXI secolo.

Mirella Castigli https://twitter.com/castiglimirella

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