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L’aria che tira in Lombardia (e non solo)

Che aria tira in Lombardia e in troppi centri urbani in Italia, oppressi dai Pm10 e da uno smog che nuoce alla salute pubblica?

Un professionista, che esca la mattina presto a Milano con il classico colletto bianco, torna a casa la sera con il colletto nero. Nero come il fumo di Londra che mise in ginocchio Churchill a guerra finita, a causa dell’uso eccessivo del carbone, ma parliamo della Gran Bretagna del dopo guerra dove vigeva una stretta Austerity per far fronte alle casse vuote a causa dell’immenso sforzo bellico: parliamo delle lacrime-e-sangue che lo Statista britannico aveva promesso ai sudditi di Sua Maestà pur di vincere la guerra contro Hitler, nell’ora più buia. Era l’Europa, pre-piano Marshall, di Germania Anno Zero che dovette rimboccarsi le maniche, rimuovendo le macerie, reali e spirituali, per ricostruire tutto, a partire dalla civiltà e dallo Stato di Diritto, dopo l’orrore dei lager e della II Guerra Mondiale.

Insomma, in un’epoca di pace, un colletto bianco milanese non avrebbe alcun motivo per tornare a casa con una camicia intrisa di smog e veleni, quegli stessi inquinanti che, ogni giorno, inaliamo, senza più farci attenzione, salvo quando un medico ci avverte che la nostra salute è a rischio.

In Italia (e in particolare in Pianura Padana e nella Piana toscana) si muore, prematuramente, d’inquinamento atmosferico. Il nostro Paese vanta questo tristemente drammatico e poco invidiabile primato in Europa. L’aria che tira in Lombardia non è composta di ossigeno e azoto, come studiamo nei libri di Chimica, bensì è un aerosol di Ozono, polveri sottili PM10 (ma attenzione ai Pm 2.5 e 1), biossido di azoto, biossido di zolfo, monossido di carbonio: l’anidride solforosa (SO2), in presenza di alta umidità (> 80%), si mescola col particolato e i PM10, a generare il London Smog invernale, mentre le elevate concentrazioni di ozono e ossidanti fotochimici, in condizioni di temperatura fra 25-35 gradi Celsius, bassa umidità, velocità del vento inferiore a 2 m/s, e in presenza di inversione termica, provoca lo smog fotochimico tipico di Los Angeles, i cui precursori sono le emissioni di ossidi d’azoto (NOx) e i Composti Organici Volatili (COV: composti organici a base di carbonio C come alcheni, aromatici o alcani a catena più lunga) dovuti ai gas di scarico delle automobili.

Ma in questo articolo, non vogliamo puntare il dito solo contro le automobili, sempre meno inquinanti per altro, diesel euro 6 compreso, sebbene ormai il diesel sia il nemico numero uno dei Sindaci da quando i media dell’America di Obama scoprirono che le auto a diesel dell’industria europea truccavano i dati… Da allora i colpevoli delle truffe sono stati puniti e sanzionati, ma sui media è rimasto il “mito” che finché non sarà completata la transizione al motore elettrico o, quanto meno, all’ibrido, nell’Italia con il più vecchio parco macchine d’Europa, tutto rimarrà come oggi.

In realtà, le auto obsolete vanno messe fuori circolazione e cambiate con nuovi modelli più moderni, con tecnologie più performanti e dunque meno inquinanti, ma sul banco degli imputati non c’è solo l’Automotive (l’industria con il maggior tasso di occupati al mondo, soprattutto con un indotto di milioni di lavoratori, in particolare in Italia, seconda manifattura d’Europa, composta di terzisti per la Germania), ma soprattutto sul banco degli imputati dobbiamo ormai mettere il riscaldamento e gli stili di vita personali.

Scommetto che in pochi sanno che le stufe a gasolio e a pellet, diventate ubique e popolari per tagliare i prezzi del riscaldamento casalingo, sono fra i maggiori responsabili dell’inquinamento da Pm10, mentre la combustione delle sigarette accese (il vizio del fumo è pernicioso non solo per la salute, direttamente o indirettamente col fumo passivo) sono sette volte più nocive dei diesel). Non è un caso che il Sindaco di Milano Beppe Sala abbia chiesto ai cittadini di rivedere le priorità, anche abbandonando il vizio del fumo.

Smettere di riscaldare le case a temperature tropicali o con sistemi di riscaldamento antiquati è un primo passo necessario per ridurre gli inquinanti che, con le temperature più elevate della media stagionale a causa dei Climate Change, provocano livelli di rischio gravi per la salute pubblica. Il passaggio successivo è imprimere un’accelerazione sul cambiamento delle abitudini, innescando il circolo virtuoso legato ai comportamenti individuali: come ci ha insegnato Greta Thundberg, nei suoi Fridays For Future (FFF), lo stile di vita personale ha un impatto fortissimo sulle buone pratiche delle comunità. Il fumo attivo nuoce gravemente alla propria salute, come il fumo passivo danneggia quella di chi ci sta intorno, anche sul pianerottolo del condominio, ma fumare all’aperto è come schiacciare l’acceleratore a tutto gas con un Euro 2 in un parco pubblico mentre la gente, per prendere una boccata d’aria buona, fa jogging o porta a giocare a pallone i figli o a spasso l’amato Fido. La proposta del Sindaco Sala ha messo al centro del dibattito pubblico un tema fondamentale, in maniera intelligente e lungimirante. Ora, davvero tocca a noi fare di più e chiedere alla politica di dare priorità alla salute e all’ambiente, perché il benessere collettivo è un indicatore importante quanto il PIL.

@CastigliMirella

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Suleimani: la morte

Il 2020 non sarà un anno bellissimo. Regna il fattore G della Geopolitica

Il barile come bene rifugio?

Petrolio a 69 dollari. L’incognita Libia, dove l’Italia rischia di perdere affari per 140 miliardi. L’incubo di una nuova guerra in Medio-Oriente, mentre infuria il conflitto inter-sunnita (sauditi contro i turchi di Erdogan, nuovo terreno di scontro la Libia contesa da Haftar, alleato dell’Egitto di Al-Sisi e della Russia di Putin, contro al-Serraj che aspetta ansiosamente l’aiuto turco), sullo sfondo del millenario scisma sunniti-sciiti, dove l’iraniano Qassem Soleimani, il potente generale di cui oggi si celebrano le esequie a Teheran, era al momento uscito (apparentemente) vittorioso con la creazione della “Mezzaluna Sciita“, dal Libano all’Iraq fino alla Siria Alawita di Assad e naturalmente l’Iran. E proprio in queste convulse ore, l’uccisione (in un Paese terzo, dettaglio da non trascurare) con un drone americano dello stratega iraniano Soleimani si grida “Morte all’America” e il mondo si è improvvisamente risvegliato sull’orlo di una nuovo conflitto in Medio-Oriente, questa volta al centro dei giochi l’Iran, già massacrato dall’embargo americano decretato dopo la fine dell’accordo (siglato dal precedente Presidente Obama, e dall’Europa, e stracciato dal Presidente Trump) sul nucleare.

Il caos globale è servito: uno scacchiere in fiamme, in cui un Presidente USA sotto impeachment si presenta come Commander in Chief in uno scenario di guerra. Dopo aver gettato un candelotto di dinamite in una Santa Barbara, quale è oggi il Medio-Oriente, dopo gli anni tragici della guerra in Siria, quella in Iraq, l’eterno conflitto israelo-palestinese, il Libano e l’Iraq percorsi da tensioni e cortei anti-Iran (contro il progetto di “Mezzaluna sciita” di Soleimani, assassinato da un attacco americano in Iraq, poche ore dopo l’assalto all’ambasciata USA che, se fosse riuscita, avrebbe visto per la prima volta sciiti pro-iraniani contro l’esercito americano), il presidente americano Trump si presenta come Colui Che Spariglia le carte della geo-politica: lo aveva già fatto, decidendo di spostare l’ambasciata americana da Telaviv a Gerusalemme, la capitale “contesa”; lo rifa oggi, pur non avendo una strategia complessiva per gestire il post-Soleimani e la probabile tremenda vendetta iraniana che non potrà tardare troppo, dopo mesi di escalation e di scaramucce nel golfo di Oman.

E l’Italia, quali rischi geo-politici corre? Petrolio che sfiora i 70 dollari significa una bolletta energetica alta, mentre pesa già l’incognita della Libia, dove Roma si è rifiutata di mettere i boots-on-the-ground e dove nei prossimi giorni arriveranno le truppe turche di Erdogan, mettendo a serio rischio gli interessi petroliferi dell’ENI (un giro di affari da 140 miliardi), già minacciati dall’avanzamento di Haftar, appoggiato dall’Egitto di Al-Sisi: nel mirino è Noor, il “più grande giacimento di gas del Mediterraneo” al largo di Cipro, nel mirino di Turchia, Cipro stessa, Libano, Israele, Iran…

Il 2020 non sarà un anno bellissimo, mentre tramonta la globalizzazione sostituita dal decoupling Cina-America e il Fattore G della geopolitica si riprende la scena, rischiando di mandare in frantumi l’intero sistema economico, già messo a dura prova dalla guerra dei dazi innescata da Trump contro la Cina, in uno scenario in cui i bazooka delle Banche Centrali sono scarichi, dopo anni di tassi a zero, metadone regalato ad eroinomani e borse ai massimi, come se fossero scollate dalla realtà.

La tensione in Medio-Oriente potrebbe tradursi in attacchi contro i pozzi petroliferi in Arabia Saudita o in una vendetta d Teheran contro Israele, esposta in prima linea, fra gli Hezbollah libanesi e iraniani.

L’Italia si trova davanti a una Libia in fiamme, dove Ankara e Mosca allungano la loro influenza, approfittando del disinteresse USA e di un’Europa che non ha una politica estera comune. Il caso dell’omicidio di Soleimani potrebbe imprimere un’accelerazione al decoupling dell’economia cinese e americana, sempre più distanti e divise. Un altro rischio che pesa su Paesi esportatori come il nostro, chiamati a decidere da che parte stare, mentre Mosca e Pechino e Teheran sembrano avvicinarsi perfino nel Golfo indiano e nel Golfo di Oman (per la prima volta in un secolo non più saldamente sotto controllo occidentale).

No, Presidente Conte, neanche il 2020 sarà un anno bellissimo per un’Italia in stagnazione e sottoposta alle tensioni dei mercati e della geo-politica. (E non osiamo immaginare cosa farebbe un ipotetico governo Salvini con “pieni poteri”, in un contesto internazionale dove scegliere gli alleati sembra più complesso di quanto fosse ai tempi della Guerra Fredda dove bastava essere atlantisti per stare dalla parte giusta della storia…).

Mirella Castigli https://twitter.com/castiglimirella

Bankitalia: l’indipendenza è una pietra miliare. Ma Enria (BCE) ammette: La gestione delle crisi bancarie non è ancora efficace, bisogna fare meglio e di più

La prospettiva della vigilanza bancaria tra passato e futuro. Il ruolo di Bankitalia e dell’EBA. Lo scandalo di Banca Popolare di Bari

Dopo il caso Popolare di Bari, salvata pochi giorni fa dal governo Conte II con un investimento in extremis da 900 milioni di euro, e che segue a stretto giro gli spinosi casi di salvataggio della banca Carige di Genova (governo Conte I) e delle due Banche venete (governo Gentiloni), senza dimenticare il salvataggio di Mps (governo Monti e seguenti) e Banca Etruria insieme alle altre popolari del Centro Italia (governo Renzi, proprio nel dicembre 2015, sembra ieri), c’è chi torna a mettere in dubbio la capacità di vigilanza esercitata da Bankitalia. Un solo dato: Bankitalia vigilava sulla Pop di Bari dal 2010, ma – evidentemente, visti i risultati – non è stato sufficiente. Un tema caldissimo e complesso che il Paese dovrà affrontare in maniera seria, approfondita e soprattutto pragmatica (affinché certe inefficienze nella gestione delle crisi bancarie, ammessa da Andrea Enria della BCE, non si ripetano mai più). Senza però cedere alle facili scorciatoie del populismo che, dai tempi dello scandalo Mps, agita il vessillo delle crisi bancarie come arma contro le élite incapaci e paventa lo spettro del Bail In per terrorizzare i risparmiatori coinvolti nei crac bancari e fare piazza pulita delle vituperate classi dirigenti, buttando il bambino con l’acqua sporca. Ma non è semplice fare chiarezza, mentre soffia forte il vento dell’antipolitica: proprio in queste ore Elio Lannutti, ex capo dell’Adusbef, pur avendo un figlio dipendente della Popolare di Bari, si presenta come il candidato del M5S alla presidenza della Commissione d’inchiesta sulle banche, difeso ad oltranza da Antonio Di Pietro contro PD e Italia Viva (IV) che invece accusano Lannutti di essere un professionista della demagogia e perfino antesemita (in effetti il senatore pentastellato non mancò di esibire sulla sua bacheca Facebook “I Protocolli di Sion”, una paccottiglia complottista antisemita, usata perfino dal nazifascismo contro gli ebrei: una delle più smascherate Fake News della storia, insomma, ma che nei sottoboschi social gira indisturbata insieme alle bufale più abusate). Ma, al di là delle reciproche accuse fra i difensori di Lannutti e i suoi detrattori, un vero fuoco incrociato che paralizza il Parlamento in queste ore, rimane sul tavolo il tema vero: in Italia e nell’Eurozona qualcosa non funzione nella gestione dei crac bancari. Anche il Presidente della Vigilanza BCE sulle banche, Andrea Enria, nel corso di una conversazione con gli studenti all’Università La Sapienza, interpellato sulla Pop di Bari, ha chiosato: “La mia esperienza è che il punto chiave è che non ci siamo ancora sull’efficacia e sul funzionamento del meccanismo per gestire le crisi bancarie. Parole pesanti che vanno prese in grande considerazione.

Però, prima di affrontare le crisi bancarie di questi anni (iniziati con Banca 121 e Mps, seguiti con le banche del centro Italia che tanto livore hanno causato agli ex governi e di cui parlerò nei prossimi post…), vorrei partire da un punto fermo: un conto è mettere a punto la cassetta degli attrezzi per gestire le crisi, un altro è mettere in dubbio, con superficialità ed arroganza, l’indipendenza della Banca d’Italia. Migliorare i processi e rendere la gestione delle crisi più efficace sono obiettivi da raggiungere in tempi brevi, anche nel caso di una banca catalogata come meno rilevante per le sue ricadute sistemiche. Tuttavia, nel frattempo, ci permettiamo di ricordare che l’indipendenza di Bankitalia rimase l’unica ancora di salvezza per recidere in maniera netta l’intreccio di malaffare e di criminalità già ai tempi dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, l'”eroe borghese“, ucciso freddamente perché si era rifiutato di farsi cooptare nel sistema Sindona, un affarista senza scrupoli, personaggio dai due volti, ma soprattutto uomo della mafia che Licio Gelli (allora al vertice della P2, loggia massonica segreta Propaganda 2) avrebbe voluto a capo di Bankitalia al posto del grande Guido Carli. Parliamo degli anni del crac del Banco Ambrosiano: sembrano trascorsi secoli da allora, ma, senza questa doverosa premessa, così lontana negli anni e avvolta nella nebbia per i ragazzi che oggi leggono i quotidiani, forse dovremmo chiudere il Mac e darci all’ippica. Perché allora fu l’intreccio di un mondo fin troppo chiuso, con un credito rarefatto, che arrivò a controllare i gangli dello Stato, della magistratura, della politica e della finanza, al centro di una ragnatela del potere occulto. Per dare un’idea di quegli anni bui, densi di morti ammazzati e fatti tragici, in cui uomini specchiati come Ambrosoli pagarono con la vita la loro fedeltà allo Stato italiano, ricordiamo solo un paio di aneddoti, citati di recente da Ferruccio de Bortoli: Andreotti giunse a salutare Sindona, già benedetto come sincero anticomunista, come “un salvatore della Lira“.

Ma chi era in realtà Michele Sindona e perché l’indipendenza di Bankitalia non può essere messa in dubbio neanche oggi? Da una parte il mondo conosceva il volto pubblico, rampante ma all’apparenza pulito di Sindona, uomo potente con un affermato studio in Via Turati, nel cuore della Milano pulsante degli affari, uno speculatore capacissimo, spregiudicato ma vincente, capace di conquistare tutte le copertine patinate della stampa (pure La Repubblica ne subì il fascino in una fase iniziale, essendo all’oscuro delle origini della fortuna di Sindona) e, fra un accordo e l’altro, stipulava patti di grande successo, ma, dietro l’immagine di pubblico dominio Sindona nascondeva una seconda faccia, come un novello Giano bifronte, il volto oscuro del Potere. Solo Ugo La Malfa, l’indimenticabile capo del Partito Repubblicano italiano (PRI) ne aveva colto in pieno il pericolo: Michele Sindona era infatti, nella realtà, un affarista senza scrupoli, capace di costruire un impero acquisendo piccole realtà bancarie che versavano in enorme difficoltà e venivano messe insieme, manovrando nel sottosuolo un mondo buio e criminale la cui frequentazione alla fine gli costò la sua stessa vita. Alla fine dei ruggenti anni ’60, gli anni del boom economico in cui l’Italia galoppava a ritmi cinesi, Sindona aveva raggranellato un piccolo grande gruzzolo, oggi si direbbe un tesoretto: 40 milioni di dollari, un’enormità per quell’epoca in cui l’Italia, ex rurale, in piena industrializzazione post-bellica, emergeva dalla frugalità e si affacciava nel dorato mondo del benessere occidentale. Perfino le Bibbie del business anglosassone come Time e Business Week incensavano Sindona come un esempio da imitare, anche la politica italiana ne era ammaliata. All’apice del successo nell’alta finanza a stelle e strisce, il nostro Giano Bifronte arrivò a mettere le mani sulla 20esima banca d’America, entrando nel giro di un brillante avvocato conservatore, anch’egli astro nascente nel mondo politico americano, Richard Nixon, futuro Presidente degli USA (sì, quello del Watergate) e dei circoli oltranzisti di destra, il cosiddetto “partito del golpe”. Ma è un Cittadino al di sopra di Ogni Sospetto, apprezzato perfino da Montini (futuro Pontefice, col nome di Papa Paolo VI), che lo scelse come socio dello Ior. Parliamo dello Ior di Marcinkus, un uomo che (secondo Sindona) “s’illuse di diventare banchiere” senza averne le capacità. Fin dagli anni ’60, Sindona era amico di Licio Gelli, il creatore della P2, che, come dicevamo, avrebbe voluto spingere Sindona alle soglie del tempio del Potere, addirittura a capo di Bankitalia. Il giornalista Enzo Biagi fu uno dei primi a illustrarne ombre e luci. Sindona, che negava di coltivare progetti eversivi, non considerava Licio Gelli un filantropo, ma un anticomunista “sincero” dopo l’uccisione del fratello nella guerra civile di Spagna. Andreotti arrivò a definire Sindona come “un salvatore della Lira“.  Questo era lo scenario che si presentava a un lettore distratto di giornali.

La caduta di Sindona fu repentina e rumorosa quanto la sua stellare ascesa e coincise con una recessione mondiale. Provocò un buco enorme, una voragine, il crac bancario insieme alla scoperta delle scatole vuote. Fu uno choc scoprire che Sindona fosse il banchiere della mafia. Lui, definito Uomo dell’anno dall’ambasciatore americano dell’epoca, si dichiarò un perseguitato. Quando Guido Carli affidò a Giorgio Ambrosoli il ruolo di Liquidatore Unico dell’impero di Sindona, prima apprezzò l’idea di distruggere quella rete malata, il puzzle dei crediti e debiti di quell’impero (connessioni fra la banca privata, i partiti politici, massoni, cardinali, capitali della mafia…), ma subito capì di essere solo. E Ambrosoli ancora più isolato.

L’indipendenza della Bankitalia fu l’unica ancora di salvezza per rompere questo intreccio di malaffare e criminalità. A farne le spese fu l’eroe borghese Giorgio Ambrosoli, ucciso freddamente perché si era rifiutato di farsi cooptare. Fu il primo di una serie di efferati omicidi, cui seguì il “caffè alla Pisciotta” che uccise Sindona. E poi la scoperta del cadavere di Roberto Calvi, trovato impiccato a una corda legata sotto il ponte dei Frati neri di Londra. Ma questa è un’altra storia.

La verità è che, senza Guido Carli e senza l’indipendenza della Banca d’Italia, la storia d’Italia sarebbe stata costellata di orrori (ed errori) ancora più funesti. Quindi, gettiamo l’acqua sporca, risolviamo urgentemente il nodo della gestione dei crac bancari, semplifichiamo e rendiamo efficiente la vigilanza (aver costretto la Pop di Bari a comprare la Banca fallita Tercas, imbarcando una mole eccessiva di crediti deteriorati Npl, non ha certo giovato, anche se è stata solo una delle tante negligenze, in una banca che taroccava i conti ad ogni livello). Ma non gettiamo il bambino con l’acqua sudicia. Lo dobbiamo anche solo alle memoria (condivisa) di Guido Carli e di Giorgio Ambrosoli. E alla messa in sicurezza del sistema bancario italiano, su cui pesa il debito pubblico, il vero macigno che impedisce al Paese di uscire dalle sue ricorrenti crisi.

Mirella Castigli https://twitter.com/castiglimirella

Brexit ed Exit… dalle ideologie!

La vittoria di Boris Johnson in UK asfalta il nuovo ex Papa Straniero di PD-LeU, Jeremy Corbyn (nella foto, ritratto accanto a Pietro Grasso, ex Presidente del Senato e già a capo di Liberi e Uguali, LEU, alle elezioni 2013), oggi il grande sconfitto delle elezioni in UK del 12 dicembre 2019, asfaltato dalla voglia di Brexit presso la classe operaia britannica. In Italia era stato magnificato per anni da LEU – e da una parte consistente del PD – come uno dei nuovi leader a cui ispirarsi per rifondare la sinistra italiana, soprattutto dopo l’uscita dal partito da parte di Matteo Renzi, il Tony Blair italiano, bollato come un “corpo estraneo” da espellere per tornare a vincere, riconquistando le pecorelle smarrite che avevano seguito i pifferai magici del M5S. Corbyn, il Papa Straniero, l’ultimo di una lunga serie che annovera nomi come Zapatero e perfino Hollande, tutti leader finiti nell’oblio.

Non sappiamo ancora quale destino attenda Jeremy Corbyn, il grigio politico della Sinistra Novecentesca che sembra uscito da un sit-in anni ’60, un ectoplasma di una Tv analogica a tubo catodico, un insipido personaggio di una pellicola in celluloide di Ken Loach, ed oggi Grande Sconfitto alle elezioni del 12 dicembre, fino a ieri osannato come raro, se non unico fulgido faro del fu Socialismo mondiale insieme a Bernie Sanders (che almeno scalda gli animi delle giovani generazioni tecnologiche negli USA), un leader così carismatico da riuscire a perdere seggi che erano saldamente rossi da cent’anni (in oltre un secolo di gloriosa storia dei laburisti britannici!) ed oggi si sono bruscamente risvegliati dal sonno del ‘900, ridipinti blu Tories. Il colore dell’anno Pantone 2020. Non sappiamo ancora quale sarà il ruolo del partito laburista dopo la sonora sconfitta di ieri, ma soprattutto non abbiamo la palla di cristallo per prevedere il futuro della Gran Bretagna durante e dopo la Brexit, anticipare le ambizioni di Boris Johnson, che da domani, scolata l’ultima bottiglia di prosecco (il bestseller dell’export italiano, presto colpito dai dazi, frutto del tramonto del Mercato unico europeo nell’era del Leave) sarà impegnato in una – fantomatica e ricca di incognite – ri-costruzione della Special Relationship che dai tempi della II guerra mondiale lega il Regno Unito agli Stati Uniti, oggi guidati dall’umorale Presidente Donald Trump, il Potus che un giorno pare appoggiare Salvini e, dopo una manciata di settimane, al primo allarme sul debito italiano e su presunte interferenze russe, appoggia “Giuseppi Conte” in un governo che butta a mare, come un vecchio barcone usato, il leader leghista… Ma se non sappiamo che fine farà la Little Britain di Johnson dopo l’uscita dall’Unione europea, non siamo neanche in grado di intuire fino in fondo l’effetto del voto di ieri nell’orgogliosa, europeista Scozia che, in massa, ha votato – di nuovo – per il Remain, ribadendo il rifiuto di seguire le orme di Londra nella terra incognita della Brexit, anche in un’elezione politica che – de facto – si è rivelata un secondo Referendum dopo quello del 2016, e un voto di pancia pro isolazionismo, sulla scia delle vittorie di Trump – Bolsonaro – e, forse un giorno chissà, proprio di quel Salvini, tanto imitato e portato ad esempio nella galassia sovranista, quanto impossibilitato a governare finché il governo Conte 2, la vendetta, dura e finché Bruxelles comanda. Perché, ammettiamolo: le elezioni di ieri in UK non erano le politiche, bensì le anti-europee: i sudditi di Sua Maestà hanno votato, ancora una volta, per il divorzio da Bruxelles, per uscire finalmente, senza sconti e ipocrisie, senza fraintendimenti o trucchi alla maniera di Theresa May dall’odiata Unione europea (UE). Ma non solo. Di più. Il voto di ieri è stata anche l’uscita dal Secolo scorso, uno schiaffo – forse fatale – al Novecento, alle obsolete, ma oggi forse defunte ideologie del secolo scorso, che, breve o no, ha segnato i decenni delle lotte operaie, lasciando in eredità la costruzione del Welfare (quello cui il Regno Unito potrebbe essere costretto a rinunciare per diventare provincia oltremare dell’impero americano?) e i cortei per i diritti civili, il femminismo, la contrapposizione fra socialismo e liberalismo politico (liberista in economia) di Margaret Thatcher. Il voto per l’isolazionista Johnson è stato un voto contro Corbyn e una (definitiva?) exit dal confuso e immaginario progetto vetero-marxista del partito laburista di questi ultimi anni, un mix di anti-capitalismo d’antan, polverosi, ma faraonici piani di nazionalizzazioni a raffica, anti-semitismo travestito da anti-sionismo e un’accozzaglia di slogan che sfioravano l’anacronismo negli anni ’60, ma ai giovani di oggi devono apparire come chincaglierie dei tempi delle Guerre Puniche. Residuati bellici da cestinare nell’indifferenziato.

E così anche il glorioso partito laburista finisce in soffitta, come già era successo a Marx ai tempi d’oro del Labour, e, per venire ai nostri giorni, al Partito Socialista francese, ridotto al lumicino dopo la fallimentare presidenza Hollande, alla Socialdemocrazia tedesca, sorpassata dai giovani Verdi, e a tanti altri piccoli o ex grandi partiti della storia socialista europea su cui ieri è calato, forse definitivamente, il sipario della storia (citofonare a LEU e a Sinistra Italiana che galleggiano in fondo a tutti i sondaggi).

I cittadini britannici hanno espresso il loro appoggio ai Conservatori guidati dall’istrionico, ma da sempre, testardamente euroscettico Boris Johnson, e, contemporaneamente, respinto con forza il costosissimo e irrealizzabile piano di nazionalizzazioni neo-marxista dello sfidante laburista Corbyn, che ha subìto una sconfitta bruciante per aver spostato a sinistra il Labour che fu di Tony Blair, il teorico della Terza Via, colui che, con oltre un decennio di ritardo, in Italia aveva ispirato Matteo Renzi, un altro ex leader, oggi crollato al 4-5% dei sondaggi contro il 40% conquistato all’apice del successo della sua meteora politica nelle elezioni europee del 2014, il Senatore di Pontassieve i cui sogni di gloria si infransero in un altro disastroso Referendum (questa volta di riforma Costituzionale) nel 2016, come già era stato spazzato via Cameron, travolto dallo tsunami sovranista ed euroscettico nel Referendum contro il Remain in EU che ha fatto da humus politico-culturale per le vittorie di Trump (e terreno di prove tecniche di propaganda digitale mirata sugli indecisi) e dei suoi alleati immaginari, quei sovranisti, nazionalisti o quanto meno isolazionisti, che oggi siedono ai vertici dei rispettivi governi in UK (con BoJo), Brasile (con Bolsonaro), Filippine (con Duterte), Giappone (con Abe), India (con Modi) eccetera. Il Fronte Sovranista del Nuovo Ordine Mondiale anti-cinese.

Paura, istinti, pancia, propaganda. L’ennesima rivolta “dal basso”, manipolata dall’alto, attraverso un’oliata macchina propagandistica che sfrutta la Rete in maniera distopica e i social media in maniera chirurgica, gettata a tutta velocità e con una potenza di fuoco enorme contro la politica grigia della politique politicienne e le vetuste élite e che in UK ha mandato a casa prima Cameron, sconfitto insieme a tutti i Remainer nel Referendum contro l’Europa, e ora anche il (mai-stato-europeista ma senza dubbio) ideologo neo-marxista Corbyn, l’ex Papa Straniero che aveva affascinato anche la sinistra-centro italiana, in eterna caccia d’identità dopo la Grande Crisi del 2009-2011, forgiato dal rigetto delle privatizzazioni Thatcheriane, la cui politica industriale faceva perfino impallidire i già iperuranici e insostenibili piani del M5S e LEU (insieme a pezzi di classe dirigente dalemian-bersaniana del PD di Zingaretti) per nazionalizzare l’ex Ilva di Taranto, le Autostrade per l’Italia e la fallimentare Alitalia, già ribattezzata (F)al(l)italia, un carrozzone che, solo in una manciata di decenni, ha bruciato una decina di miliardi di euro, in un falò delle vanità aspirazionali del Paese che vanta il terzo debito pubblico al mondo e una crescita asfittica, maglia nera in Eurozona, da oltre vent’anni.

Con il voto di ieri, la Brexit finalmente esce dai sogni fumosi e acquista concretezza, finirà per rappresentare una cesura, ma perfino un’opportunità, se la UE, guidata dalla nèo-eletta Commissione di Ursula von der Leyen, saprà cogliere. Potremo davvero toccare con mano cosa significa uscire-dall’-Europa, una frase così vaga da diventare un feticcio per gli agiografi Sovranisti di tutta Europa, escluso il Gruppo di Visegrad che agli investimenti europei si guarda bene dal voler rinunciare, e un mantra per gli euro-scettici italiani guidati da Borghi, Bagnai e Rinaldi, la cui guerra all’euro (e in questi giorni al MES, il meccanismo di stabilità) è il vero vessillo brandito come una clava, o la spada di Alberto da Giussano che scintilla spavalda dagli spilloni che spiccano sul bavero delle giacche dei leader leghisti, per mandare in frantumi l’Europa unita e l’euro, la moneta comune che ha sconquassato le politiche monetarie e pure certi sogni imperali di Trump. Ma questa è un’altra storia.

Oggi in mille pezzi finisce l’Utopia Socialista, l’ideologia novecentesca, quella che voleva combattere le disuguaglianze, a favore della lotta di classe, contro le privatizzazioni, la Globalizzazione, il capitalismo (nell’accezione neo-liberista ma non solo), cullandosi nell’idea di tornare alle Piccole Patrie e alle nazionalizzazioni di cui quasi nessuno, tranne una certa sinistra italiana, sente alcuna nostalgia. Quel vetero-marxismo delle fotografie color seppia alla Ken Loach che si è infranto contro il Protezionismo isolazionista di Boris Johnson, il nuovo alfiere del Progetto Sovranista di Trump. Tramonta il sol dell’avvenire, che si è dimostrato, fin dai suoi esordi, fin dagli anni ’20 del secolo scorso, il miglior alleato e il vero trampolino di lancio delle destre occidentali. Exit. Sipario. Quello che sta per aprirsi è un nuovo capitolo, dove protagonisti saranno i nazionalisti scozzesi (sarà la Scozia la New Catalogna, europeista ma pronta a divorziare da Londra?) e soprattutto i giovani europei che, seguaci smarriti dell’attivista ambientalista Greta Thunberg o del nuovissimo movimento tricolore delle Sardine, stanno creando smottamenti e sommovimenti nell’area di sinistra della scena globale l’una, nazionale l’altra, uniti dal fil rouge dell’uso sapiente della Rete, dell’engagement social, dell’eco-sensibilità Green e dal rifiuto dell’Hate Speech e dell’approccio anti-scientifico (dei negazionisti del climate change, dei no vax eccetera) che invece accomunano tutti i sovranisti sullo scacchiere mondiale. Sipario: il marxismo è morto, ma la lotta per i Nuovi Diritti delle nuove generazioni (contro l’odio – contro il negazionismo climatico eccetera) è più viva che mai. E va dal Cile ad Hong Kong, ma anche dalla Catalogna alla Scozia. Il futuro è loro? Intanto parla i linguaggi (anche informatici) del XXI secolo.

Mirella Castigli https://twitter.com/castiglimirella

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