L’impatto del Coronavirus nell’economia globalizzata. Corollario: Il sovranismo protezuionista è una boiata pazzesca
L’epidemia da coronavirus sta rallentando, ma finché non sarà debellata la paura (atavica) – e la psicosi di massa- indotta da una nuova “malattia sconosciuta”, per cui l’unico protocollo efficace è il contenimento della sua stessa diffusione, impossibile non ammettere che la globalizzazione abbia subito una battuta d’arresto che neanche la guerra dei dazi scatenata dal Presidente Trump, il profeta del neo protezionismo sovranista, avrebbe potuto immaginare nei suoi migliori auspici verso il decoupling fra USA e Cina.
L’impatto del Coronavirus sull’economia non è ancora devastante, ma ha senza dubbio dimensioni imponenti. Ha portato alla chiusura dell’impianto FCA in Serbia, a causa dell’interruzione della supply chain. Ha forse eroso i ricavi di Apple, una delle regine di Wall Street, appartenente al Club dei Trillionaire (le società quotate con oltre un trilione di dollari di valutazione), che infatti ha abbassato le attese del fatturato di marzo, dopo la chiusura degli stabilimenti dell’area dello Hubei, focolaio dell’epidemia. In Borsa ha seminato più volte il panico fra gli investitori a causa degli effetti che l’epidemia sta producendo sul mercato cinese: solo l’annuncio del rallentamento della diffusione del Coronavirus, per cui è stato di fatto coniato il neologismo Infodemia, nel suo epicentro ha fatto tirare un sospiro di sollievo.
In precedenza, solo l’epidemia della Sars, che nel 2003 durò otto mesi e generò un declino del tasso di crescita del PIL cinese di due punti percentuali, fece di peggio, escludendo fenomeni di ben più vasta portata nei secoli passati. Questa volta, il calo del PIL cinese dovrebbe essere intorno all’uno per cento, e cioè la crescita cinese dovrebbe passare dal 6 al 5 per cento. Secondo Capital Economics, il costo del protezionismo sovranista dovuto al Coronavirus ammonta già 280 miliardi di dollari solo nel primo trimestre 2020.
Il coronavirus, con i suoi 1775 morti su 72 mila infetti (un tasso di mortalità intorno al 2,4% contro l’oltre il 9% della Sars, secondo i dati dell’OMS di ieri), al di là di tutto, ha comunque un impatto significativo nella globalizzazione. Ha prodotto una riduzione del prezzo del petrolio, sceso di nuovo dal momento che la Cina ne sta consumando il 20% in meno. Il dollaro sta tornando al suo ruolo tradizionale di valuta rifugio (come l’oro) e nelle ultime settimane si è apprezzato sotto quota 1.10 contro euro. Lo yuan è tornato a deprezzarsi, dopo i guadagni grazie alla tregua, seppur armata, nella guerra commerciale con gli Usa. Ben 180 milioni di studenti in quarantena sono stati riportati a scuola grazie all’e-learning e alle classi virtuali della formazione a distanza.
Ma quali sono gli effetti (im)prevedibili del coronavirus nell’economia? Ci sono fenomeni che non ti aspetti. Potrebbe accelerare il passaggio alle consegne dell’e-commerce via droni e auto senza guidatori: i postini, che entrano in tante case e consegnano tanti pacchi, potrebbero essere visti come mezzi di contagio? Le driverless cars sono già utilizzate nell’area di Wuhan per portare beni di prima necessità ai milioni di abitanti della città dello Hubei, in quarantena da tre settimane. In tutta la provincia di Hubei vivono 60 milioni di persone.
Due to the #coronavirus outbreak, most residential areas are now off-limits to couriers, making it inconvenient to fetch deliveries. A car owner came up with a work-around: park the car outside the residential area and then use a remote control car to deliver the items. #COVID19pic.twitter.com/wRj4kcT7Q7
Ma, in futuro, la consegna delle merci via droni sarà realtà: il Coronavirus darà una spinta al mercato dei droni civili, che, forte di 2 milioni di mezzi prodotti all’anno, secondo Goldman Sachs già vale 13 miliardi di dollari a livello globale nel quinquennio 2016-2020 (in Italia è un settore da 100 milioni di euro, ma secondo l’Osservatorio Droni del Plitecnico di Milano è in pieno boom). Le onsegne via drone da parte di Alibaba in Cina e di Amazon nei centri urbani, tanto che è già entrata in vigore la normativa UE per il trasporto in città.
Altra conseguenza (im)prevedibile è l’accelerazione verso la Cashless Society e quindi potrebbe innescare un Risiko Bancario. Se la Cina disinfetta le banconote, significa che tutti saremo indotti a usare la propria carta di credito contactless dei negozi dotati di POS, per ridurre al minimo lo scambio di banconote (e di superfici contaminate) che possano diventare veicolo della diffusione del Coronavirus (COVID19). L’uso di moneta elettronica, pagamenti mobili via smartphone, potrebbe crescere e dare una spinta importante al’innovazione nel mercato dei pagamenti, e dunque al Fintech.
Non stupisce che l’ex banchiere di sistema, ed ex potente ministro dello Sviluppo del governo Monti, Corrado Passera, colui che ha sbloccato le startup con una legislazione ad hoc, abbia raggiunto l’utile già nell’ultimo trimestre del 2019 per la sua Illimity, la digital bank che un anno fa non esisteva ed è cresciuta fino a 3 miliardi di attivo nell’arco di 12 mesi, creando 200 posti di lavoro nuovi di zecca. Il momento del digital banking è adesso.
Grazie al Coronavirus, il 2020 sarà l’anno d’oro delle startup del fintech italiane e internazionali? Presto per dirlo, ma lo fa ipotizzare lo sbarco nel cuore di Milano di Plug and Play, azienda della Silicon Valley che ha accelerato 1.400 startup nel mondo solo nel 2019, con partner del calibro di Nexi e Unicredit. Unicredit che ha appena annunciato la chiusura di 450 filiali e il taglio di 6mila dipendenti (altri 2mila esuberi Ubi Banca, oggi nel mirino di Intesa Sanpaolo), dopo che fra la fine 2009 e la fine del 2018, nell’arco di apprena nove anni, in Italia siamo passati da 788 a 505 banche, da 34.000 a 25.400 sportelli e da 330.500 a 278.300 bancari (52mila in meno). E ricordiamo che Unicredit e Intesa Sanpaolo (che oggi ha annunciato l’offerta per Ubi Banca), rappresentano circa il 46% della forza lavoro del settore bancario. E metà dei dipendenti dovrà cambiare mansioni per far fronte all’evoluzione della Digital transformatuion.
La sfida tecnologica nelle banche è in atto, ma sta ulteriormente accelerando: la trasformazione digitale nel banking è un fenomeno irreversibile e forse a fare da volano al Fintech sarà proprio il Coronavirus…
All’AssiomForex di Brescia, giunto alla 26esima edizione, il Presidente di Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha spiegato che è l’ora delle concentrazioni per le piccole banche: il rapporto costi/entrate si ferma al 72%, gli Npl (i crediti deteriorati) sono ancora elevati e poco coperti, mentre sono urgenti gli investimenti digitali.
Il 2018 è stato un anno d’oro per i servizi finanziari guidati dalla tecnologia e per le aziende del settore Fintech, ma il meglio deve ancora arrivare. Secondo CB Insights, il mercato Fintech, che aveva chiuso il terzo trimestre 2018 in crescita dell’82% rispetto al 2017, ha visto 11 milioni di italiani (1 su 4) sfruttare almeno un servizio fintech nel 2018: particolarmente apprezzati sono stati i servizi di mobile payment, i servizi per gestire il proprio budget personale e familiare e i servizi per i trasferimenti istantanei di denaro tra privati, oltre a servizi in ambito assicurativo (per esempio la gestione digitale dei sinistri e le micro-polizze).
Stando a un sodaggio, quasi otto giovani italiani sarebbero pronti a lasciare la propria banca e a passare a una Big IT: social media Facebook e società dell’economia digitale e IT come Apple e Google potrebbero diventare banche e una Amazon Bank potrebbe diventare realtà. I colossi digitali infatti godono della fiducia (quasi fideistica per alcuni brand) dei consumatori e di un indubbio vantaggio per redditività e valutazioni di borsa. L’impetuosa crescita delle app nel Mobile banking ha davvero cambiato il panorama dei servizi finanziari in Italia. Perfino i robo analyst vantano performance migliori dei colleghi umani nella equity research e minacciano già gli analisti finanziari.
E da una survey di Tink emerge che negli istituti di credito italiani il 52% dei manager bancari (contro la media europea del 35%) si dice preoccupato per la concorrenza delle Big IT nel mobile banking e negli m-payments (i pagamenti via smartphone, tablet e smartwatch), dal momento che già negli Usa il mobile banking si sta confermando come il canale preferito per accedere ai servizi finanziari. Sempre più serrato l’assedio delle Big IT al sistema finanziario su pagamenti, credito e gestioni. Ovviamente l’uso del digitale in banca è correlato con la maturità tecnologica dei Paesi, ma l’Italia, seppur invecchiata, potrebbe subire una disruption rapida grazie ai Millennial e ai Nativi Digitali. Considerate che il 15% dei millennials italiani ha già maneggiato una criptovaluta, e si tratta della percentuale più elevata nei Paesi europei: i consumatori si dicono pronti per le monete digitali purché le emetta un’istituzione finanziaria riconosciuta, credibile ed affidabile (l’ottovolante dei Bitcoin non convince, insomma). Inoltre, le valutazione di molte banche risultano depresse (con una quotazione sotto il patrimonio tangibile, fatto evidente per le banche italiane e tedesche) perché, stando a una survey di Oliver Wyman, solo un investitore su quattro oggi è convinto e si fida dei piani di innovazione digitale implementati dalla sua banca. La spagnola Bbva ha triplicato in 5 anni i propri clienti mobile, mettendo in campo un modello di digital banking di successo. E molto studiato è l’approccio delle banche scandinave, una strategia che convince in termini di efficienza e innovazione.
Le app bancarie e finanziarie più scaricate in Europa
In Europa alcuni Paesi come la Svezia sono già molto vicini alla cashless society, ma i ritardi italiani, dovuti al divario culturale e digitale di una popolazione anziana (anche se gli Over65 sono molto tecnologici!) – ritardi accumulati soprattutto nella regolamentazione della finanza digitale -, non devono sviare: in Italia c’è grande spazio per il fintech perché nel nostro paese a un alto costo medio di finanziamento (in termini di mark-up del sistema bancario) corrisponde ancora una bassissima penetrazione delle start up digitali. Poi la blockchain cambierà il volto della finanza, e si vedrà quanto.
Il livello di digitalizzazione (Fintech e digital banking) dei principali paesi europei nel 2019
Naturalmente l’Asia – coronavirus o no – è l’ecosistema perfetto per l’innovazione finanziaria: il futuro del banking partirà infatti dall’Asia dove alla fine di quest’anno si conteranno 1,7 miliardi di correntisti digitali. In termini di investimenti e innovazione, il sistema bancario globale è sempre di più a trazione asiatica e americana.
La notizia di oggi è l’offerta di 4,9 miliardi di euro da parte di Banca Intesa per acquisire Ubi Banca, che porterebbe alla gestione di risparmi per 1,1 trilioni di euro e potrebbe dare l’avvio a un nuovo ciclo di concentrazioni e di consolidamento o Risiko bancario nell’era della banca multicanale, ponendo un argine alla polverizzazione del credito. La presenza di consumatori digitali e di una forte concorrenza tra intermediari spinge le banche a scommettere maggiormente sull’innovazione: le alleanze fra banche e fintech stanno accelerando a ritmi sempre più serrati, visto che l’innovazione è il futuro, se è vero – e lo è – che dal 2015 ad oggi i cinque maggiori venture capital mondiali hanno raccolto 56 miliardi di dollari.
Sappiamo che nel mercato Usa la percentuali di clienti bancari che fa affidamento solo ai canali digitali rimane bassa per ogni classe di età, ma l’omnichannel (ovvero il multicanale) bancario è il futuro e la cashless society potrebbe essere dietro l’angolo, sostenuta anche dalla paura del Coronavirus e dalle conseguenze di questa infodemia. Le filiali delle banche dovrebbero cambiare volto con terminali automatizzati, tablet, pareti interattive, collegamenti in remoto. I canali digitali sono ormai in grado di coprire larga parte dell’offerta bancaria e presto i consumatori supereranno la “dipendenza psicologica” dalla filiale. Non avremo dunque istituti senza filiali, ma ci sarà una drastica riduzione delle reti commerciali. Le aree di alleanza fra banche e Fintech saranno i pagamenti e le gestioni. Il cambiamento è qui e le opportunità vanno colte oggi.
La banca multicanale è il modello di banking che molti istituti dovranno imparare ad applica
1.1 IL FRAMEWORK TEORICO E I RIFERIMENTI STORICI E NORMATIVI
Ancora nel 2010, quando ormai la gravità della crisi finanziaria internazionale ha raggiunto il suo acme e gli effetti sull’economia reale portano a pesanti contrazioni dei PIL nazionali, il Ministro del Tesoro italiano, Giulio Tremonti, afferma: “i risultati relativi agli stress test svolti su cinque gruppi bancari italiani ne mostrano la solidità patrimoniale e la stabilità, anche rispetto a scenari caratterizzati dalle condizioni macroeconomiche più penalizzanti e meno probabili”2.
In effetti, nonostante il Paese fosse nel pieno di una crisi finanziaria epocale e il sistema creditizio avesse iniziato a razionare il credito in maniera preoccupante, non vi erano avvisaglie dei gravi problemi che da lì a poco avrebbero portato il comparto bancario al centro dell’attenzione pubblica sia per le operazioni condotte dai singoli istituti sia per le ipotesi delittuose che stavano progressivamente iniziando ad emergere.
Le parole del Ministro Tremonti appaiono suffragate – specie se rilette nel tempo – dai fatti: “Se il governo statunitense ha tirato fuori 700 miliardi di dollari, quelli europei avevano sborsato a tutto il 2014, secondo un calcolo della Banca d’Italia, una cifra non troppo lontana: più di 500 miliardi di euro. Al cambio dell’epoca, ben oltre 600 miliardi di dollari. Quasi la metà, 250 miliardi a carico della Germania; e poi 60 della Spagna, 50 a testa di Irlanda e Olanda, 19 di Belgio e Austria, 18 del Portogallo. L’Italia? Appena 4 miliardi, e tutti per il Montepaschi. (…). Ci sono ben 13 gruppi bancari che esibiscono una eccedenza di capitale monumentale: 25 miliardi e mezzo”3.
Non è certo il quadro d’insieme del sistema bancario nazionale a impensierire.
E’ piuttosto la sensazione che, nonostante le diffuse rassicurazioni, l’economia stia davvero rallentando e non soltanto per effetto della crisi globale ma soprattutto per la difficoltà di trasmissione degli impulsi monetari.
In questo ambito la questione degli Istituti di Credito diviene centrale: il calo della produzione industriale è sensibile, siamo nel mezzo di una imponente recessione e gli stimoli monetari vengono trasmessi a imprese e famiglie con gravi difficoltà e ritardi.
3 – Sergio Rizzo, 2018, Il Pacco, pag 15-16, Feltrinelli
E’ dunque opportuno interrogarsi se le difficoltà di finanziare il sistema dell’economia reale dipenda dalle condizioni generali del sistema economico o da specificità del sistema creditizio che non favorisce una corretta intermediazione.
Gli aspetti esaminati portano a considerare anzitutto l’ambito territoriale e le sue dinamiche, la tipologia del canale prescelto per ottenere finanziamenti, gli elementi strutturali per la concessione del credito.
L’ambito territoriale presenta una diversificazione importante in ordine all’andamento economico contingente e distrettuale; l’evoluzione della crisi dimostrerà che le banche locali avevano già maturato una condizione di dissesto finanziario mai riconosciuto apertamente e non erano certamente in grado assumere nuovi e più gravosi impegni di sostegno alle imprese in difficoltà.
E’ possibile ravvisare nell’insieme dei poteri locali, nella deviazione dai fini istituzionali e nelle aderenze politiche, che spesso hanno condizionato la gestione bancaria, le ragioni del fallimento di una sana e corretta politica del credito. Gli esempi più conosciuti sono: il senese con Mps – e i suoi riflessi come banca di sistema; il contesto ligure con Banca Carige e il Veneto con Bpvi e Veneto Banca.
La tipologia del canale prescelto. Mentre per i più grandi gruppi industriali è possibile sacrificare in parte gli utili d’esercizio o utilizzare le riserve finanziarie intra-gruppo, la struttura delle piccole e medie imprese e le famiglie fanno largo ricorso al canale bancario per finanziare gli importi correnti o per avere fonti per nuovi investimenti.
Le banche possono essere costituite in due modi: tramite la forma giuridica della società per azioni oppure tramite la forma della società cooperativa per azioni a responsabilità limitata (“L’esercizio dell’attività bancaria da parte di società cooperative è riservato alle banche popolari e alle banche di credito cooperativo”, art.28 D.Lgs. 385/1993).
La banca costituisce, per tradizione storica e radicamento territoriale, la modalità principale per la gestione dei rapporti finanziari più diretti e immediati, consentendo operazioni di conto corrente, di accredito di denaro e di prelievo, ma soprattutto costituisce l’interlocutore naturale per il finanziamento di esigenze specifiche o contingenti, spesso possibile grazie alla relazione personale o alla specializzazione dell’operatore bancario nel settore di maggiore richiesta.
Gli elementi strutturali per la concessione di credito. Se l’apparente solidità economica e/o finanziaria del debitore ha rappresentato e rappresenta tuttora il filtro principale per la richiesta di credito non vanno sottovalutate le dinamiche di trasformazione economica e d’impresa che hanno velocemente imposto un cambio di paradigma. Mentre la crisi economica diffonde timori di insolvenze e rallenta la concessione di nuovi prestiti, ben presto anche le situazioni considerate più solide entrano in sofferenza. Se l’elemento discrezionale per il prestito ha sempre avuto per l’erogante un connotato di ampiezza e favore difficilmente riscontrabile in parametri uniformi, la rapida evoluzione tecnologica mette tutti con le spalle al muro: è difficile concedere nuovi crediti, vi è una crisi generalizzata di fiducia, le forme alternative di credito si vanno moltiplicando a tutto vantaggio dell’equity.
Ne deriva così una radicale trasformazione sia dell’esigenza del credito – che in una fase di perenne emergenza assume la condizione di necessità per sopravvivere – sia dello spostamento nelle forme di finanziamento (sul modello della pecking order theory: finanza interna e cash flow, canale bancario e forme alternative e partecipative)4.
Per definire il quadro d’insieme dello stato di salute e operatività del sistema bancario, posto che risulta impossibile desumere dai dati di bilancio disponibili di ciascuna realtà la condizione analitica dei flussi di reddito e dei rischi, possiamo fare rimando all’esame di Claudio Porzio5 che così sintetizza i possibili ambiti di indagine:
gli interventi di moral suasion della Banca d’Italia a seguito dell’attività di vigilanza ordinaria e sulla base delle anomalie riscontrate;
i risultati di bilancio ordinario (esercizio) e le operazioni di fusione e trasferimento di proprietà;
l’andamento di indicatori di bilancio paragonabili con quelli in uso dal FITD (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) per monitorare le situazioni di crisi potenziali ed effettive.
__________________________________
4 – Testing Static Tradeoff against Pecking order Models of Capital Structure, L. Shyam-Sunder and S. C. Myers, Journal of Financial Economics, pp. 219-244, 1999
5 – Claudio Porzio, Un decennio di crisi bancarie: uno sguardo d’insieme, Working papers, Incontro di studio, Roma, 9 Dicembre, 1998
La prima conclusione è che il dipanarsi della crisi economica evidenzia principalmente un problema di finanziamento all’economia reale; non vi sono però elementi per parlare di crisi del settore bancario; la crisi economica non appare pertanto legata al cattivo stato di salute delle banche e alla modalità di erogazione del credito.
Il rallentamento nella crescita dei prestiti sembra dipendere dai meccanismi di trasmissione degli impulsi di politica monetaria stabiliti dalle autorità centrali (Bce)6.
Gli ambiti di analisi più puntuali mostrano invece un progressivo cedimento strutturale per un’insufficienza specifica del mondo bancario che ha concesso credito in modo discrezionale e non avverte per tempo in cambiamento storico alle porte.
Infine l’operatività del sistema bancario è stata sicuramente attraversata da una serie di crisi invisibili che fanno rimando ad un sistema puntale di controlli diretti e indiretti lasciando la soluzione delle problematiche eventualmente emerse ad un regolazione interna al sistema stesso che non consente di dare risposte chiare e tantomeno evidenti sull’effettiva solidità del sistema bancario.
1.2 L’EVOLUZIONE DEL QUADRO NORMATIVO E L’AVVIO DELLA BCE
La riforma del 1993 (c.d. Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, D.Lgs. 385) introduce alcuni principi cardine di riforma del sistema:
la liberalizzazione dell’attività bancaria;
la privatizzazione degli istituti bancari, in larga parte ancora controllati dallo Stato;
il superamento del concetto di specializzazione bancaria che consente l’erogazione di credito senza limiti temporali e/o di settore;
la prudente gestione dell’attività creditizia e la ricerca della stabilità del sistema finanziario al fine di tutelare il risparmio pubblico (dando così piena attuazione all’art.47 della Costituzione);
la limitata possibilità di acquisizione di partecipazioni in imprese del settore creditizio o in altri settori;
la forma giuridica dell’impresa bancaria (supra, par.1).
_________________________
6 – In effetti la Bce aveva inizialmente rialzato i tassi di interesse (luglio 2008) in seguito all’aumento dell’inflazione core. Il Presidente Jean-Claude Trichet dovette in breve correggere l’indirizzo di politica monetaria proprio a seguito della crisi economica e delle critiche ricevute. Cfr. James Surowiecki, Internazionale, 15 settembre 2011, web: www.internazionale.it/opinione/james-surowiecki/2011/09/15/il-grande-errore-di-trichet
“Nel 1998, con l’approvazione della legge n.461 (c.d. legge Ciampi) e con il successivo decreto applicativo n.153/99, il legislatore provvide, da un lato, a creare i presupposto per un completamento del processo di ristrutturazione bancaria avviato con la legge Amato e, dall’altro, a realizzare una revisione della disciplina civilistica e fiscale delle Fondazioni.
Per effetto della riforma attuata dalla legge Ciampi, la cui prima fase si concluse con l’approvazione degli statuti da parte dell’Autorità di vigilanza (Ministero del Tesoro), “le Fondazioni sono persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale” (art.2 D.Lgs. 153/99).
Con la legge Ciampi, inoltre, l’iniziale obbligo di detenere la maggioranza del capitale sociale della banche conferitarie fu sostituito da un obbligo opposto: la perdita da parte delle Fondazioni del controllo delle società stesse. Per incentivare la perdita del controllo fu previsto dalla legge un regime neutralità fiscale per le plusvalenze realizzate nella dismissione (…)”7
Per comprendere appieno l’evoluzione del quadro normativo del settore bancario in atto dal 1990 è opportuno rischiare le sentenze n.300 e 301 del 2003 della Corte Costituzionale:
ha affermato che l’evoluzione legislativa intervenuta dal 1990 ha spezzato quel “vincolo genetico e funzionale”, “vincolo che in origine legava l’ente pubblico conferente e la società bancaria, e ha trasformato la natura giuridica del primo (prima ente conferente, oggi Fondazione) in quella persona giuridica e privata senza fine di lucro (art.2, comma 1, d.lgs. 153/99) della cui natura il controllo della società bancaria, o anche solo la partecipazione al suo capitale, non è più elemento caratterizzante;
ha sancito una volta per tutte la natura privata delle Fondazioni di origine bancaria, ribadendo che sono collocate nell’ordinamento civile e che la competenza legislativa sulle stesse compete allo Stato (…);
ha dichiarato incostituzionale la prevalenza negli organi di indirizzo delle Fondazioni dei rappresentanti di Regioni, Province, Comuni, Città Metropolitane (…);
ha stabilito al contrario che la prevalenza deve essere assegnata a una qualificata rappresentanza di enti, pubblici e privati, espressivi della realtà locale;
ha valutato incostituzionale l’utilizzo di atti amministrativi da parte dell’Autorità di Vigilanza che comprimano indebitamente l’autonomia delle Fondazioni: cioè gli atti di indirizzo di carattere generale o i regolamenti intesi a modificare l’elenco dei settori di utilità sociale (…);
ha definito il concetto di controllo congiunto da parte di più Fondazioni presenti contemporaneamente nell’azionariato di una banca, evidenziando che questo sussiste solo se fa di esse c’è un patto di sindacato accertabile.8
Prosegue inoltre l’Acri: “Con senso di responsabilità, dopo la crisi scoppiata nel 2008, mentre gli investitori istituzionali uscivano dalle banche italiane, le Fondazioni non hanno fatto mancare il proprio sostegno e, quando le Autorità di vigilanza, EBA in testa, hanno chiesto interventi di ricapitalizzazione, esse hanno partecipato a consistenti quanto determinanti aumenti di capitale”9.
Gli interventi legislativi degli anni ‘90 ci presentano dunque una rapida evoluzione del sistema bancario sul versante interno, nel tentativo di rispondere sia al bisogno di modernizzazione del settore sia all’attuazione delle condizioni più stringenti imposte dal quadro di riferimento internazionale, in primo luogo dalle regole comuni europee mentre ci si prepara all’introduzione della moneta unica.
Si moltiplicano però anche i segnali di una debolezza di fondo e delle difficoltà connesse ad interpretare il cambiamento nella corretta prospettiva di una crescita dimensionale (si parla spesso di big player ma il sistema finisce spesso per ripiegare sul dato locale di provincia).
Su scala nazionale si tenta di resistere alla forte spinta di aggregazione del settore proveniente dall’estero e si ripetono quasi le stesse dinamiche che interessano il livello locale: la Banca d’Italia, purtroppo, sarà in prima linea nella scelta impropria e molto controversa di favorire una resistenza alle acquisizioni (su tutte possiamo ricordare il tentativo di Abn per Antonveneta e quello di Bbva per Bnl).
Se il 2005 fa emergere in modo drammatico i ritardi accumulati e porta a sviluppi giudiziari che compromettono seriamente la credibilità delle stesse Autorità di controllo, è ancora il dato normativo che va considerato con la massima cura.
__________________________________
8 – sito Acri, ibidem
9 – sito Acri, ibidem
Il processo di convergenza su scala globale iniziato negli anni ’80 aveva già prodotto importanti adeguamenti nelle linee guida del settore bancario.
Sebbene il Comitato di Basilea per la Vigilanza bancaria sia di fatto un organo consultivo internazionale istituito nel 1974 dalle banche centrali dei paesi del G10, i suoi compiti istituzionali sono quelli di definire una regolamentazione della Vigilanza Bancaria, per assicurare stabilità al sistema finanziario globale.
Il Comitato non ha dunque potere legislativo, ma formula proposte che dovranno essere recepite nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali. L’obiettivo è che le sue proposte vengano recepite dal maggior numero possibile di Stati, per rendere omogenea a affrontabile la normativa sulla Vigilanza Bancaria.
La portata delle proposte del Comitato e le tempistiche di attuazione assumono un carattere di assoluto rilievo per comprendere uno snodo fondamentale della crisi finanziaria del 2008.
Mentre ancora si cerca di capire la portata della crisi stessa e le sue implicazioni divengono di giorno in giorno più evidenti per le devastanti ricadute sociali, il Comitato approva, il 12 settembre 2010, le linee guida per Basilea 3, ossia un memorandum d’intesa che ha il dichiarato intento di prevenire l’eccessiva assunzione di rischi da parte degli operatori, rendere il sistema finanziario più solido e stabilire un terreno di gioco davvero uniforme.10
Le misure riguarderanno gli intermediari finanziari, obbligando ad introdurre standard minimi di liquidità; la definizione di capitale regolamentare e il contenimento del livello di leva finanziaria favorendo così una migliore copertura dei rischi di mercato e di controparte e riducendo la “prociclicità” delle regole prudenziali.
Sul versante europeo, specialmente in ambito euro, assume rilievo l’avvio dell’azione della Banca Centrale Europea. In breve tempo emergono le diverse problematiche relative alla convergenza dei sistemi economici dei paesi aderenti alla moneta unica, al trasferimento dei poteri dalle banche centrali nazionali alla stessa Bce, al coordinamento dei sistemi di vigilanza sull’intero sistema del credito.
La Bce è la banca centrale dei 19 Stati membri dell’Unione europea che inizialmente hanno adottato l’euro.
Nonostante il fine istituzionale primario dell’Istituto Monetario sia mantenere la stabilità dei prezzi, ossia di salvaguardare il valore dell’euro11, si pone da subito il tema del rapporto tra l’Istituto stesso e il sistema delle banche centrali nazionali, delle rispettive prerogative e competenze.
E’ dunque chiaro che la Bce si avvii rapidamente a svolgere quell’attività di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi insediati nell’area dell’euro e negli Stati membri partecipanti non appartenenti all’area. Essa contribuisce in tal modo alla sicurezza e alla solidità del sistema bancario nonché alla stabilità del sistema finanziario nell’Ue e in ogni Stato membro partecipante12.
Abbiamo così una seconda conclusione sull’evoluzione della trasformazione del settore bancario italiano.
Da una parte le riforme italiane del 1993 e del 1998 che mirano a rafforzare il settore consentendo la liberalizzazione del settore creditizio; dall’altra un quadro internazionale in rapida accelerazione che impone nuovi e più stringenti parametri per garantire la solidità del sistema mentre l’introduzione della moneta unica impone un maggiore coordinamento a livello europeo che si traduce nell’esigenza di favorire i processi di convergenza e di stabilità.
Non può sfuggire che la tempistica delle riforme in atto e gli effetti indotti dalla crisi finanziaria del 2008 impongano un rapido ripensamento di tutto il settore bancario e determinino problemi inaspettati di copertura dei rischi. Mentre ci si concentra sui nuovi standard internazionali si ottiene l’effetto inatteso di rallentare la trasmissione degli impulsi monetari contribuendo in parte ad aggravare gli effetti stessi dalla crisi in atto.
Nessuno vuole attaccare Bankitalia, ma anzi rendere più efficiente l’autorità indipendente, finora costretta ad operare con le mani legate
La nebbia sulla vigilanza del sistema bancario italiano degli ultimi anni si sta diradando. Dalla foschia emerge finalmente con chiarezza un quadro un po’ meno nebuloso ed anzi finalmente più nitido, in grado di gettare luce sugli scandali bancari che, dal caso MPS ai tempi dello Spread ad oltre 500 punti base fino al recente crac della Popolare di Bari, funestano i sonni dei risparmiatori e dei contribuenti.
Facciamo un passo indietro. Bankitalia opera nel perimetro del legittimo esercizio delle sue prerogative: si adopera per trovare soluzioni alternative al default o al commissariamento. Ma non tutto è andato per il verso giusto, se Enria (BCE) ha ammesso che la gestione delle crisi bancarie non è ancora efficace, bisogna fare meglio e di più. E il diavolo, come spesso succede, si nasconde nei dettagli. Dalle intercettazioni tra De Bustis e Sabetta del lcaso della Pop di Bari (luglio 2013), l’ex Ad afferma esplicitamente che sul piatto dell’acquisizione di Tercas c’è il prestito da 480 milioni di euro di cui tener conto. Prestito che non viene menzionato nella relazione di Palazzo Koch sul crac. Prima anomalia.
Leggendo la misura cautelare del 31 gennaio e confrontanola con le dichiarazioni ufficiali di Bankitalia, sia alla “vigilia” del commissariamento sia a gennaio in audizione alla Camera, emerge che Pop di Bari non fosse affatto convinta dell’operazione Tercas: anzi, esprimeva forti dubbi e perplessità. Seconda anomalia.
Inoltre, siamo a conoscenza del fatto che la banca pugliese truccasse senza farsi scrupoli sia i conti forniti ai soci che quelli richiesti dagli ispettori. Ma questi ultimi non dispongono forse di mezzi ben più potenti per la verifica contabile, tanto che i manager, nelle intercettazioni, fanno trapelare il timore che la frode venga scoperta dalla vigilanza? Terza domanda inevasa.
Quando non vengono ottemperate le condizioni – l’indipendenza della governance – che hanno scatenato ispezioni e sanzioni, Bankitalia ha le mani legate: non può adottare misure di controllo più stringenti. Ma perché Palazzo Koch non può comminare ulteriori sanzioni e soprattutto bloccare l’emissione di nuovi titoli (e qui si spalanca davanti a noi il capitolo Consob…)? Quarto interrogativo che non quadra.
La vigilanza appare paralizzata, impossibilitata a contenere un eventuale dissesto bancario. Vuol dire che ai manager basta mentire agli ispettori per cavarsela e continuare a bruciare risparmi? Ma allora di quali mezzi di difesa dispongono i risparmiatori per tutelarsi? Quanto risultano sacrificabili i risparmiatori, le formichine italiane che tengono in piedi il sistema (il debito pubblico è controbilanciato dal risparmio privato) per assicurare la stabilità di sistema?
L’autorità di vigilanza di Bankitalia appare esercitare una funzione puramente ginnica: tanto virtuosismo, scarsa efficacia, se l’autorità di vigilanza appare impotente e messa con le spalle al muro di fronte a situazioni come le banche Venete, la Pop di Bari eccetera.
E, del resto, la domanda che ogni contribuente onesto si pone da anni è il seguente: come può un Paese appartenente al G7, seconda manifattura d’Europa, terzo Paese per importanza dopo l’asse franco-tedesco, uno dei tre Paesi fondatori dell’Europa unita, ad essere precipitato nel vortice delle banche senza neanche accorgersene, anzi mentre qualunque editorialista serio sosteneneva ad nauseam in ogni Tg “la ‘solidità’ del sistema bancario“? A leggere la stampa di questi ultimi anni, tutto sembra risalire agli scandali Mps – alle quattro banche, compresa Banca Etruria, e alle banche venete. Ma tutti questi casi rappresentano l’apice in cui culminò una stagione “spericolata”e “spregiudicata” (di cui il Paese, con la memoria di un pesce rosso, sembra aver perso traccia…) che ha perfino portato in carcereAntonio Fazio (per reati gravissimi nel caso Antonveneta e nel caso Bnl), non un banchiere qualsiasi, bensì “l’ultimo governatore della Lira“, come titolò Il Sole 24 Ore. La Banca d’Italia, che era sempre stata la riserva di “grand commis de l’Etat”, non veniva sfiorata da uno scandalo qualsiasi, ma gettata nel tritacarne giudiziario e mediatico da fatti gravissimi commessi a livelli apicali: sembra che ce ne siamo dimenticati, tutti presi dai casi recenti (ma, per quanto seri, pur sempre casi di provincia), ma fino ad Antonio Fazio la carica di governatore era a vita, invece, dopo il suo addio e le sue condanne, il mandato di governatore di Banca d’Italia è stato ridotto a sei anni, rinnovabili una volta. Una rivoluzione, impensabile ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi, per non parlare dei predecessori. Eppure, oggi, sembrano passate ere geologiche da quei fatti.
Quella sembra la preistoria del sistema bancario italiano, il Precambriano rispetto al passaggio alle forme di vita multicellulare, se pensiamo al processo di fusione di Capitalia con Unicredit (in realtà un’incorporazione di Capitalia da parte di Unicredit), all’era di Cesare Geronzi in Mediobanca, ma soprattutto all’irresistibile scalata del “dottor Koch” ai piani alti della finanza italiana. Vediamo come avvenne l’ascesa di Geronzi, dall’Italia delle banche pubbliche al riassetto dopo le riforme degli anni ’90. «Quando Guido Carli si dimise da governatore (1975) e il dottor Koch ebbe la definitiva certezza che i suoi amici Antonio Fazio e Lamberto Dini avrebbero fatto più carriera di lui, se ne andò con Rinaldo Ossola al Banco di Napoli», scrive Alberto Statera. «Dal Banco di Napoli il direttore generale della Banca d’Italia Mario Ercolani lo indirizzò alla Cassa di Risparmio di Roma di Remo Cacciafesta. Da dove è cominciata la sua scalata» (Sergio Rizzo). Un’ascesa che avvenne sia in verticale che in orizzontale, come racconta la sua biografia: in verticale, grazie a una notevole serie di acquisizioni e fusioni, favorite dal potere politico, al termine di ognuna delle quali Geronzi è sempre al vertice di una realtà progressivamente più vasta; in orizzontale, perché Geronzi, attraverso finanziamenti generosi in varie direzioni, costruisce una rete di complicità ed alleanze multi-direzionali. «La Cassa di Risparmio di Roma era una banca pubblica, piccola e neanche messa troppo bene. Fra i soci dell’istituto c’era tutta la nobiltà papalina, ma anche politici e imprenditori legati alla politica (leggasi: il generone romano, ndr). Un salotto forse un po’ polveroso, che aveva il suo principale punto di riferimento nel leader della Dc romana, Giulio Andreotti. Ma che ben utilizzato poteva diventare un formidabile strumento di potere. E Geronzi (che allora qualcuno considerava appoggiato dai socialdemocratici) accettò di buon grado di diventare il simbolo di quel mondo andreottiano, punta di diamante di una sorprendente espansione nel mondo della finanza. Il sistema bancario era quasi tutto in mani pubbliche e l’unico modo per crescere era ovviamente comprare banche pubbliche, cioè controllate dalla politica. Il primo colpo fu l’acquisizione del Banco di Santo Spirito dall’Iri di Romano Prodi», racconta Sergio Rizzo. Questa acquisizione fu “una decisione imperiale, senza gara, al miglior offerente e senza neanche uno straccio di perizia“, come denunciò Pietro Armani, vicepresidente dell’Iri. Ma il Banco di Santo Spirito fu solo il trampolino di lancio di una folgorante carriera. Leggiamo le eloquenti parole di Massimo Giannini: «L’ambizione di Geronzi è sempre stata quella di trasformarla, la sua banca. A costo di seminare nel fango. A metà degli anni 90 sfilò allo scalcagnato conte Auletta la disastrata Bna. A metà del 2002 (dopo aver acquisito anche Mediocredito centrale e Fineco – ndr) ha ingoiato Bipop e Banco di Sicilia, piene di sofferenze e buchi di bilancio, e ha dato vita finalmente al colosso bancario che aveva sempre sognato. Con Capitalia, Geronzi è riuscito a trasferire Piazzetta Cuccia a Via del Corso».
Per inquadrare meglio l’ascesa orizzontale di Geronzi, leggiamo ancora Statera: «Di equilibrismi il dottor Koch ha vissuto tutta la vita. Nato con la politica da banchiere pubblico, ha prosperato con la politica da banchiere privato. Prima o seconda repubblica per lui “pari son”: da An alla Quercia, dagli amici del Manifesto a ForzaItalia». Continua Rizzo: dal momento che pecunia non olet, «tutti (o quasi) i partiti si abbeveravano alla Banca di Roma». Mentre le altre banche voltavano le spalle a Silvio Berlusconi, il banchiere romano lanciò una scialuppa di salvataggio al leader di Forza Italia; e non esitò ad intervenire a fianco del PDS, esposto con l’istituto di Geronzi per 203 miliardi di lire nel ’97. Forse il patto del Nazareno nasce qui, in questo crogiuolo di interventi, a ben pensarci. Capitalia giunse addirittura ad essere il primo azionista della Lazio, ma aprì i rubinetti a tutti gli imprenditori più noti (Domenico Bonifaci, Giuseppe Ciarrapico, Sergio Cragnotti). Poi, però, l’Italia si risvegliò dal sonno della ragione, quello che genera mostri, coi due crack più severi degli ultimi anni, quello della Cirio e quello della Parmalat.
Per la Parmalat, le accuse furono gravi: Capitalia avrebbe messo alle strette Calisto Tanzi, obbligandolo a rastrellare – a prezzo salatissimo – aziende gravemente indebitate con Capitalia, che ripianavano il loro debito con i soldi di Parmalat . Ma “il gioiellino” del latte entrò nel tunnel della crisi che l’avrebbe travolta (e, con essa, travolgendo nella rovinosa caduta tanti ignari risparmiatori), proprio emettendo un bond. La sofferenza venne così scaricata sui risparmiatori, con la madre di tutti i bond avvelenati, mentre la banca – che aveva piazzato il bond sul mercato – lucrava sulle commissioni e sugli interessi applicati ai soldi anticipati. Geronzi se la cavò con un’interdizione di due mesi, parlando di faccende di ordinaria amministrazione, ma la verità è che «senza la complicità interessata di Capitalia, Parmalat sarebbe fallita almeno un anno prima, con circa tre miliardi di euro di passivo in meno» (commentò il procuratore della Repubblica, Gerardo la Guardia). E il giudice di Bologna aggiunse anche che, a causa delle operazioni volute da Geronzi tra il 2000 e il 2003, il buco della Parmalat si era ingigantito più che in tutti i dieci anni precedenti. Senza entrare nei dettagli di altri casi (come il crac Italcase, inghiottita da un buco di 600 milioni di euro, da cui uscì assolto con formula piena), il 4 luglio 2011 Geronzi venne condannato in primo grado dal Tribunale di Roma a 4 anni di reclusione per concorso in bancarotta per la vicenda Cirio.
Neanche ci vogliamo soffermare sul periodo in Mediobanca. Basterà una frase di Luigi Zingales per inchiodare il dottor Koch alle sue responsabilità: “Nei suoi undici mesi al comando Geronzi aveva fatto molto male, trasformandouna delle più illustri imprese italiane in un caos“. Un unico aneddoto: in un’intervista al Financial Times, il politico banchiere prospettò investimenti opposti a quelli annunciati dal management durante l’investor day, disorientando il mercato.
Ora vogliamo concludere questo lungo, ma doveroso, prequel delle travagliate vicissitudini del nostro sistema bancario, ricordando che nel 1995 la Banca di Roma di Geronzi acquisì la Banca Nazionale dell’Agricoltura, venduta cinque anni dopo all’Antonveneta a 1,5 volte il prezzo pagato. Perché si sa, ogni banchiere ha la sua storia, ma certi nomi ritornano come nei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico. O come nei peggiori nightmare di Allan Poe.
Il politico banchiere, che rimarrà nella storia tricolore per il geronzismo, ormai assunto a “categoria dello spirito” che “non ha mai smesso di aggirarsi nelle stanze del capitalismo nazionale” (Il Fatto Quotidiano), ha chiuso il cerchio nel miglior stile italiano del giro di valzer delle poltrone concesse ai compagni di merende (cit.): a fine 2010, quasi alla vigilia del ribaltone, Geronzi volle creare un comitato scientifico della Fondazione a Trieste: la poltrona di presidente onorario venne assegnata all’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio.
Ma facciamo ancora un passo indietro. La banca Antonveneta, al centro del caso Mps e dell’ascesa/caduta di GiuseppeMussari a Siena, non era un nome sconosciuto alle cronache italiane. Si trattava dell’istituto nel mirino di un altro ex banchiere rampante, Gianpiero Fiorani, l’ex numero uno della Popolare di Lodi, collezionista di varie inchieste (ha totalizzato 5 anni complessivi di condanne), già protagonista indiscusso della storia delle scalate bancarie del 2005 che culminò nella condanna di Antonio Fazio, ex governatore di Bankitalia, alle cui vicende giudiziarie abbiamo appena accennato.
Nel caso Bancopoli, Fazio venne condannato nel processo sulla fallita scalata ad Antonveneta da parte della Banca Popolare di Lodi. La condanna venne confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione il 28 novembre 2012: Fazio è stato ritenuto colpevole per aver concorso nel manipolare il mercato a favore della Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani.
Una premessa. Tra il 2004 e il 2005 il sistema bancario italiano fu al centro di una serie di movimenti che coinvolgevano importanti gruppi stranieri, il cui obiettivo sembrava consistere nel prendere il controllo di alcune banche italiane. Sui giornali la politica cercava di opporsi a questi movimenti sventolando il consueto, insensato vessillo dell’italianità delle banche e delle aziende (quello che abbiamo visto che fine per altro ha fatto, in un altro settore, con il disastro Alitalia: dieci miliardi bruciati e non abbiamo ancora visto la fine del tunnel… Siamo un Paese che ha letteralmente fame di investimenti stranieri, che invece mettiamo in fuga a causa di una macchina della giustizia lenta e inefficace, senza certezza del diritto, ma chiudiamo questa parentesi).
In particolare la Banca Antonveneta era nel mirino dell’olandese ABN Amro, mentre la spagnola Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (BBVA) puntava alla Banca Nazionale del Lavoro (BNL). Nella primavera del 2005, le due banche italiane finiscono per diventare oggetto di interesse anche da parte di due altre banche italiane: la Banca Popolare di Lodi (BPL), poi Banca Popolare Italiana (BPI), con al vertice Gianpiero Fiorani, e Unipol, guidata da Giovanni Consorte.
ABN Amro e BPL lanceranno un’OPA su Antonveneta, mentre BBVA e Unipol annunciano un’offerta pubblica di acquisto su BNL. Sebbene siano fallite tutte e quattro, le scalate finiscono per accendere un faro su un sottobosco inquietante. Le inchieste riveleranno una serie di intrecci, “patti di sindacato occulti” (è l’estate dei “furbetti del quartierino“), di accelerazioni/rallentamenti nel rilasciare le autorizzazioni da parte di Bankitalia ed altri mirabolanti fatti, di cui prenderemo in esame solo alcuni, per non tediare i nostri venticinque lettori.
La procura dichiarò che erano state usate anche Fake News (all’epoca si chiamavano solo “bufale” o notizie false, ma non era ancora iniziata ufficialmente l’era della post-truth) per variare il prezzo delle azioni di Antonveneta e mettere i bastoni fra le ruote dell’OPA di ABN Amro, mentre imprenditori bresciani (fra cui il finanziere Emilio Gnutti insieme a diciotto imprenditori bresciani suoi amici) vennero indagati per reato di aggiotaggio. Si scoprì che erano stati finanziati dalla BNL per aggiudicarsi azioni Antonveneta per conto di Fiorani.
Di tutta quella vicenda, complicata, ma ricca di poco edificanti aneddoti, e pure di ghiotte bufale, rimarranno memorabili intercettazioni telefoniche come quella tra Fazio e Fiorani , in cui l’allora governatore della Banca d’Italia, prima di annunciarla ai mercati, confida privatamente a Fiorani l’ok alla sua OPA su Antonveneta, ricevendo in cambio “un bacio in fronte”, quasi un sigillo a conferma del loro rapporto confidenziale. Fiorani (sei mesi di detenzione e poco più di due anni di affidamento ai servizi sociali) ha chiuso i conti con la giustizia italiana, oggi fa un altro mestiere. Però la vicenda è utile per ripercorrere il caso Antonveneta, prima che il nome della banca tornasse in auge nell’odissea di Mps. Infatti, Mps – che già aveva consumato la maggior parte dell’eccesso del suo capitale per acquisire Banca121 – deciderà di comprare Banca Antonveneta nel novembre 2007, quando è già scoppiata la crisi dei mutui subprime negli Usa. La madre della Grande Crisi 2008-2009. E l’allora banchiere Mussari arriva alla scalata, sborsando al Banco Santander una cifra astronomica: 9 miliardi di euro in contanti, che costringe la Fondazione Mps a svenarsi con un assegno da 3,4 miliardi; ma poiché i soldi non sono ancora sufficienti, Mps tira fuori dal cilindro “un bond convertibile (Fresh) che sarà foriero di altre perdite, instabilità e condanne giudiziarie“. Insomma, l’acquisizione porterà il glorioso Monte dei Paschi – la banca più antica d’Italia – a chiedere l’aiuto del Belpaese nel momento peggiore della crisi dei debiti sovrani e poi a costringere l’Italia, prostrata da nove anni di crisi economica e finanziaria, a nuovi interventi statali in tempi recenti. Un salasso immane, e il Paese ha retto solo grazie all’export delle nostre meravigliose aziende esportatrici, mentre i contribuenti e le aziende venivano tartassate, e l’evasione fiscale non dava segno di rientrare o gli evasori di dare un segnale di ravvedimento.
Non stupì nessuno il voto compatto di PD e Forza Italia (tranne rare eccezioni) a favore del Bail-in, che seguiva l’approvazione del pareggio di bilancio in Costituzione, votato anche da Giorgia Meloni, come di recente ha raccontato il senatore Mario Monti, allora Presidente del Consiglio, chiamato a salvare l’Italia dall’imminente default (sventato, sull’orlo del baratro, col varo della Legge Fornero e poi con il Whatever-it-Takes pronunciato da Mario Draghi, allora presidente della BCE). A livello europeo, il sì aveva accomunato il PPE, insieme a Forza Italia, ai socialisti europei, Pd compreso: la direttiva Brrd – Bank recovery and resolution dirictive – fu approvata il 15 aprile 2014 su mozione dello svedese Gunnar Mokmark. Ma non arrivò come fulmine a ciel sereno, bensì partorita dopo lunghi anni di discussioni con 584 voti favorevoli, 80 contrari e 10 astensioni al Parlamento europeo. Ma gli italiani se ne accorsero solo quando scoppiò il caso delle quattro banche, anche se il bail-in veniva recepito dall’11 settembre 2015, per la precisione, attraverso un decreto attuativo della direttiva europea votata dal parlamento europeo il 23 aprile 2014.
Non sappiamo dove fossero nel 2011 il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (che poi ha sostenuto la necessità dell’intervento pubblico), il presidente dell’Abi (che ha definito il bail-in incostituzionale) e Giuseppe Vegas (anche lui acerrimo nemico della pratica, a parole sue), ma nel novembre di quell’anno, con lo spread quasi a 600, entrò in carica il governo Monti, per salvare l’Italia, dopo l’ennesima finanziaria di Tremonti partorita nell’arco di una manciata di febbrili settimane di un’estate bollente e un autunno caldo e gli irritanti risolini di Merkel-Sarkozy diretti nei confronti di una surreale dichiarazione di Berlusconi. Il professor Mario Monti, in loden, anche ministro dell’Economia, deve salvare l’Italia: con il Paese sull’orlo del baratro, vota il Fiscal Compact (Monti poi dirà che non fu una buona idea, ma che il Paese sarebbe stato massacrato sui mercati se fosse stato l’unico a rifiutare) e il resto. Bankitalia e governo hanno partecipato alle trattative sulla Brrd e l’hanno approvata. Pure in Parlamento piangono in molti, ma quasi tutti hanno votato, salvo poi definire il bail-in “un prelievo forzoso” per i correntisti (Forza Italia) e via dicendo. Ma che cosa significa? “In sostanza dal 1° gennaio 2016 i problemi degli istituti di credito andranno risolti dall’interno, non con interventi esterni, anche ricorrendo ai depositi superiori ai 100mila euro, oltre che agli azionisti e agli obbligazionisti meno assicurati” scrive Il Sole 24 Ore.
Dal 2008 al 2015, mezza Europa era ricorsa all’impiego di fondi pubblici per aiutare le proprie banche: 239 miliardi la granitica Germania, oltre 162 il Regno Unito dell’Austerity (che poi ha partorito la Brexit), più di 52 la Spagna, 42 l’Irlanda, 40 la Grecia, 36 i Paesi Bassi, 28 l’ Austria, tanto per citare i casi principali. L’Italia in un primo tempo si fermò a un miliardo (il conto poi è salito a 20 miliardi di aumento di debito pubblico, con il Salvarisparmio del governo Gentiloni), in gran parte perché il Paese aveva giù un enorme rapporto debito/PIL, in parte adducendo come giustificazione la mirabolante stabilità del sistema bancario italiano. Stabilità inficiata dal caso Mps, che però era apparsa come un inciampo di percorso, un caso di spregiudicato utilizzo dei derivati e di malsano intreccio fra banca e territorio. Insomma, un neo, niente di più. Ma qualcosa ribolliva sotto le ceneri. Soprattutto dal momento che a comprare il debito italiano erano le nostre banche. Ma non perdiamo il filo.
Il Paziente Zero della crisi fu Banca Etruria. Un piccolo istituto nato nel 1882 nella provincia orafa di Arezzo, vittima dell’allegra finanza (fra consorterie locali – anche in versione massonica, essendo Arezzo la città in cui è vissuto serenamente fino alla fine un certo Licio Gelli -, controlli collusi o impotenti, politica interessata o distratta), il 22 novembre 2015, si vede azzerare il capitale dei propri azionisti e 788 milioni di obbligazionisti subordinati. Insieme a Banca Etruria ci sono Banca Marche, Carichieti e Cariferrara. Secondo Bankitalia, rappresentano “solo l’1% degli attivi bancari italiani“. Ma le cifre non dicono tutto: quelle 4 banche raccontano “una storia italiana”. Una piccola crisi genera un tracollo. “Due anni di patimenti e 6 miliardi di euro, versati dagli istituti concorrenti per tamponare la falla fino alla vendita attuale senza corrispettivo” scrive La Repubblica. E minano la fiducia dei risparmiatori italiani.
Ma cos’era Banca Etruria, divenuta simbolo degli intrecci malsani? Dominata per un trentennio dal presidente massone Elio Faralli, che lasciò nel 2012 a 87 anni, era l’emblema del “sommo intreccio di poteri cattolico-agricoli e laico-massonici” (sempre La Repubblica). Alla “banca dell’oro” Fitch assegna un credito BB+ (a livello “spazzatura”) nel 2012, a causa delle sofferenze giunte “a un livello doppio rispetto alla media del sistema”. Fra i beneficiari spiccano: il gruppo Sacci, azienda cementiera esposta per 70 milioni; l’Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone (60 milioni); il cantiere Privilege Yard, che doveva costruire un lussuoso panfilo da 127 metri, di cui fu realizzato solo il modellino; il gruppo Uno a erre (10,6 milioni); l’immobiliare Cardinal Grimaldi (11,8 milioni). Con il beneplacito della Consob, Banca Etruria emette bond subordinati per 120 milioni di euro che vengono rifilati alla clientela minuta, ignara di ciò che sta acquistando. Sono state truffate persone che non avevano la necessaria educazione finanziaria per comprendere cosa stessero sottoscrivendo. Verranno azzerati dal bail-in. Tramite ambienti del governo si era presa in considerazione la via della cessione: quella a Unicredit di cui si parla nel libro di de Bortoli, un abboccamento tra Arezzo e il fondo del Qatar, l’ipotesi Bper del ministro Delrio. Perfino era stata ventilata la fusione con la popolare di Vicenza (altro caso disperato): sarebbe stata caldeggiata da Bankitalia, ma, se fosse andata in porto, sarebbe stato un fallimento da prima pagina. Eppure “i vertici di Arezzo furono cacciati e sanzionati per non avere fatto la fusione con la popolare veneta”, riporta Il Fatto. Concludiamo questa breve rassegna, con le parole di Massimo Giannini su Repubblica: “Non è colpa solo della Grande Recessione, se l’Italia con il suo bel 18% di crediti deteriorati lordi rispetto agli impieghi resta la maglia nera d’Europa. Se dopo 30 miliardi di ricapitalizzazioni dilapidate solo per quella “sporca dozzina” di istituti, e dopo uno “scudo” da 20 miliardi creato a fine 2016, gli analisti stimano un ulteriore fabbisogno di capitali tra 40 e 55 miliardi. Oggi le banche “salvate” sono ancora “sommerse”. Vuol dire che nella politica qualcosa non ha funzionato. Solo nel “triangolo delle Bermude” Mps-Popolare Vicenza-Veneto Banca sono scomparsi 65 miliardi di depositi in 5 anni, e un milione e mezzo di risparmiatori ci ha rimesso quasi 15 miliardi. Certo, i ‘furbetti del credito’ hanno anche rubato. Ma i controllori non hanno controllato“. No, non è colpa solo della Grande Recessione. Se Intesa San Paolo non ha la pancia piena di Npl, non è per astrusi motivi, ma perché è una banca ben gestita ed è risultata la migliore d’Europa negli ultimi stress test. Il problema di Monte dei Paschi, la Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, Banca Etruria è da attribuire – lo ripetiamo – a “un rapporto malsano con il territorio da cui provengono, con una redditività da far spavento, con decine di migliaia di soci nonostante non producano uno straccio di utile da anni“. Dobbiamo ricordare la parabola di Giovanni Berneschi (ex presidente di Carige appena condannato a 8 anni e 2 mesi, già indagato nel 2006 per l’appoggio dato a Consorte e Fiorani nella scalata su Antonveneta)? E il caso Zonin? L’ex re del Prosecco ha bruciato in un triennio 6,2 miliardi di valore, lasciando carta straccia in mano a 118 mila poveri azionisti. La Veneto Banca del ragionier Vincenzo Consoli ne ha bruciati 5, riducendo sul lastrico 90 mila risparmiatori. Dal 2013 si sono volatilizzati depositi per 11 miliardi a Vicenza, per 4 miliardi a Montebelluna. Anche per le venete si delinea il “Comma 22” con Bce e Ue. Atlante alza le mani, ma noi stiamo a parlare delle bugie dette in Parlamento. Per carità: le bugie di una ministra vanno sanzionate. Ma forse i malefici intrecci arrivano da ben più lontano. E sono tipiche, brutte storie italiane. Più gravi di eventuali mancate verità.
Quante volte ci hanno detto – giurato e spergiurato – che il sistema bancario era solido e che le eventuali criticità erano in via di risoluzione? Non le contiamo più. Nel 2010 il banchiere Mussari, la cui folgorante ascesa a Mps aveva galvanizzato l’intera Siena, spiegava a Il Foglio perché fosse più tremontiano del ministro dell’economia Giulio Tremonti: perbacco, all’epoca condivideva l’accorato appello del braccio destro del presidente del Consiglio Berlusconi a regole etiche nel sistema finanziario internazionale e le filippiche del ministro ai ringalluzziti bonus dei banchieri. Ma chi era Mussari e come avvenne la sua resistibile ascesa nel mondo bancario italiano? Presidente della Fondazione Monte Paschi a 39 anni, presidente della banca senese a 44, presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi) a 48, nel 2010 non avrebbe mai immaginato che a 50 sarebbe finito nella polvere. «Faccia da cow boy buono» (Alberto Statera), l’Alain Delon (copyright di Stefano Cingolani), il ragazzo tosco-calabrese, eskimo – kefiah – capello lungo (Stefano Feltri), si fece le ossa nella Fgci toscana, poi nelle cooperative, il classico cursus honorum di sinistra, per avere il colpo di fortuna nel 2001, quando iniziò la carriera di Banchiere Per Caso: Piccini – sindaco di Siena dal 1990 al 2001 – scelse Mussari come membro della Fondazione Monte Paschi, che con il 60% delle azioni controllava la banca, e Mussari scalò la presidenza, soffiando la poltrona proprio a Piccini, scaricato da D’Alema e dal partito. Senza alcuna nozione di finanza, senza parlare una parola d’inglese, munito dello stesso know-how di un correntista medio, con in tasca una laurea in Legge (ma vantava la presenza alla festa di laurea del potente rettore dell’Ateneo, ed ex ministro, Luigi Berlinguer), Mussari si avviava verso la sua conversione in banchiere. La folgorazione sulla via di Rocca Salimbeni. Mps era ancora shockata dalla cura De Bustis (avete già sentito questo nome a proposito di Pop di Bari? Ops!), il banchiere che nel 1999 aveva messo in pancia a Siena la Banca del Salento (ribattezzata Banca 121), zeppa di derivati e prodotti tossici dai nomi hollywoodiani (MyWay, 4You, Visione Europa).
Nel 2010, all’apice della carriera all’Abi, Mussari parlava del mestiere nobile della banca, un mestiere utile alla collettività, con Tremonti convergeva su rimbrotti contro le speculazioni, la ludopatia dei Cds, si sgolava per chiedere regole – limiti – niente di meno che la prigione-per-chi-sbaglia, perché “la mano invisibile poteva andare bene per il macellaio ma non per l’hedge-fund“. Eppure l’epopea della sua ascesa si era svolta un po’ diversamente.
Quando Mussari arrivò a Mps, la banca senese, detta Babbo-Monte o «la mucchina» (che, fino al 2010, elargiva oltre cento milioni di euro l’anno per il Comune e la Provincia, l’Arci comunista e la democristiana Libertas, le contrade e le parrocchie) valeva 3 miliardi e 330 milioni. Un miliardo in più della Compagnia Sanpaolo di Torino. Stretto fra l’ambizione di crescere e il terrore di essere scalati, gli balenò l’idea di acquisire banca Antonveneta. Divenuto il dominus di Siena («in città non si muove foglia senza il suo parere», secondo Feltri), forte dei suoi molteplici legami («Comunione e liberazione, Opus Dei e sussurri lo vedono vicino alla Massoneria», scriveva Statera) e soprattutto di un maxi finanziamento pari a 673 mila euro in dieci anni a Ds e poi al Pd (fonte: Giorgio Meletti), Mussari va alla conquista di Antonveneta. Ma questa scalata sarà la pietra tombale della sua carriera e – purtroppo – il macigno che affosserà una prima volta Mps, la banca più antica del mondo: l’acquisizione da 9 miliardi di euro (Emilio Botin, presidente del Santander, disse che tutte le trattative avvennero solo telefonicamente), a un prezzo stratosferico persino per l’epoca, avveniva nel 2007, alla vigilia del crollo di Lehman Brothers (la madre di tutti i fallimenti). Più che una gloriosa galoppata verso l’età aurea, una disastrosa crociata a cavallo di un acciaccato Ronzinante. Il resto è storia. L’Ad Fabrizio Viola e il presidente, Alessandro Profumo (passato nel frattempo a Mps, quando Mussari è nominato ai vertici dell’Abi), scoprivano solo il 10 ottobre 2012 un contratto segreto, risalente al luglio 2009, con la banca giapponese Nomura relativo al derivato Alexandria. Una bomba ad orologeria (e non era l’unica infida sorpresa, fra l’altro): Giuseppe Mussari aveva truccato i conti con un’operazione di ristrutturazione del debito per centinaia di milioni di euro. Scrisse Il Fatto Quotidiano: “Due operazioni apparentemente slegate tra loro in realtà erano connesse proprio dal contratto segreto e l’una era il rimborso dell’altra. La prima operazione permetteva a Mps di scaricare su Nomura la perdita di Alexandria e così di abbellire il bilancio 2009. La seconda ‘rimborsava’ i giapponesi in quanto, come si dice nella telefonata (ndr, quella registrata all’insaputa di Mussari e sventolata da Nomura agli ignari capi di Rocca Salimbeni), il Monte Paschi ‘entrerà in un asset swap e due operazioni pronti contro termine a 30 anni legate a tale swap’“. Era l’inizio di un incubo, insomma. Ma nel 2010, come scrivevamo in principio, la resistibile ascesa di Mussari lo aveva portato sullo scranno dell’Abi, la Confindustria delle banche. Statera scrisse con la consueta maestria: «Nonostante i disastri evidenti e il vulnus reputazionale, Mussari viene eletto presidente della potente Associazione bancaria, pare con scarse opposizioni, tra le quali – a quel che si disse –quella del presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli». Ma il suo piglio aggressivo riscuoteva consenso e strappava applausi: costruiva polemiche con il governo Monti sulle commissioni ed attaccava frontalmente l’Eba dopo lo stress test di fine 2011. Nell’estate 2012 la riconferma, mentre la procura di Siena avviava un’inchiesta in sordina per una serie di presunti reati, sia precedenti che successivi all’acquisto di Antonveneta, che deflagrò in tutto il Paese il 22 gennaio 2013, quando Il Fatto Quotidiano riportò in prima pagina un titolo a quattro colonne: «Mps, i conti truccati e il contratto nascosto». Un giallo finanziario che pareva rubato a un best-seller di John Grisham, e che si concludeva all’italiana: 3,9 miliardi di euro sui bilanci dello Stato italiano, per sottoscrivere i Monti-bond con i quali Mps avrebbe fatto fronte alle sue perdite. Mussari, che da presidente dell’Abi riecheggiava le tesi tremontiane (le sparate contro la finanziarizzazione dell’economia, con l’attività bancaria sempre più dipendente dai mercati finanziari), da banchiere aveva sfruttato i derivati fantasma per ‘abbellire il bilancio’ della banca senese, accettando però di rilevare da Nomura anche derivati in perdita per centinaia di milioni nel bilancio 2012. Con un’operazione di scambio di titoli («asset swap»), Monte Paschi ottenne titoli di stato italiani, 3 miliardi di Btp a trent’anni, spostando così il rischio in portafoglio da un «rischio corporate» a un «rischio sovrano». Una nemesi degna di una tragedia greca: Mussari, il banchiere a digiuno di inglese e di derivati, divenne il cavallo di Troia della finanziarizzazione. E – ciliegina sulla torta – alla vigilia della crisi dei debiti sovrani. La brusca impennata dello spread tra i titoli decennali italiani e gli omologhi tedeschi dell’estate 2011, fino al picco di 575 punti base di novembre, dapprima ridusse i margini di guadagno dell’operazione con Nomura; ma non finiva qui, perché, nello stesso periodo, l’imposizione dell’European banking authority (Eba) alle banche europee di svalutare i titoli sovrani in portafoglio, penalizzò gli istituti italiani e spagnoli, in particolare quelli stra-carichi di bond delle rispettive nazioni come Mps. Il buco sembrava stratosferico. Mussari, la sera dello scoop del Fatto, presentò la lettera di dimissioni da presidente dell’Abi, ma quello che lasciò basito il Paese fu l’atteggiamento della classe dirigente, accompagnato dalla caduta dalle nuvole di Bankitalia, Vigilanza, Consob, revisori. Estinti i contratti derivati (Alexandria con Nomura e Santorini con Deutsche Bank), quelli che accettavano “un baratto tra spazzatura e oro“, a febbraio 2013, Mps riscrisse a bilancio perdite di ulteriori 700 milioni, ma niente di paragonabile ai 14 miliardi ipotizzati in un primo momento: grazie ai Monti Bond sarebbe stata sopportabile, se non si fosse verificata la fuga dei correntisti. Il panico, la psicosi di massa generata ed amplificata anche dalle bercia di Grillo in piazza e dalle supposizioni di buchi neri e tangenti sui media, aveva provocato una fuga di 11 miliardi prelevati dai depositi in un trimestre. Il 6 marzo, con un volo da dieci metri di altezza, si schiantava su un vicolo all’interno del comprensorio di Rocca Salimbeni David Rossi, direttore della Comunicazione e Marketing Mps. Sebbene sia stata scartata l’ipotesi dell’omicidio, ma la famiglia indaga tuttora su un caso opaco e tragico, la città di Siena usciva a pezzi dalla vicenda Mps.
Nessuna tangente né alcun “vantaggio personale” sono emersi dall’inchiesta sull’acquisizione di Antonveneta. Mussari ne è uscito innocente, anzi, il suo avvocato lo ha definito una vittima. Ma nel 2019 il Tribunale di Milano ha condannato a 7 anni e 6 mesi di carcere Giuseppe Mussari, a 7 anni e 3 mesi Antonio Vigni e a 4 anni e 8 mesi Gian Luca Baldassarri, ex vertici di Monte dei Paschi di Siena tra gli imputati per le presunte irregolarità nelle operazioni effettuate dalla banca senese tra il 2008 e il 2012 per coprire le perdite dovute all’acquisizione di Antonveneta. Ma gli Zonin, i Mussari, i Consoli hanno lasciato strascichi immensi: quelli che elargiscono mutui e finanziamenti agli amici o agli amici degli amici, o a chi sottoscrive obbligazioni subordinate della loro banca, hanno terrorizzato i correntisti italiani. Concludiamo con un ottimo spunto da Linkiesta: “Monte Dei Paschi, la Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, Banca Etruria, accomunati da un rapporto malsano con il territorio da cui provengono, con una redditività da far spavento, con decine di migliaia di soci nonostante non producano uno straccio di utile da anni. Domanda innocente: è la recessione che ha prodotto una simile distorsione nel sistema bancario, o è un pezzo del sistema bancario, quello che non sa selezionare chi merita o non merita il credito, uno dei principali freni alla ripresa del Paese?“. Altro che Bail-In, la genesi di tutto è la Banalità del Male: l’assenza, sistematica, di meritocrazia nel Paese, l’opacità delle folgoranti carriere eccetera.
Tutto però iniziò con una versione italiana dell’inglese Don’t panic al TG1. Niente Panico, siamo italiani, sembrava dire il telegiornale nazional-popoplare, diretto da Gianni Riotta, poche ore dopo il fallimento di Lehman Brothers. Gli italiani cenavano, con lo sguardo rapito dagli scatoloni di quei ragazzi che, fino a 72 ore prima, erano golden boys della finanza globale, all’improvviso catapultati nella disoccupazione di quella che sarebbe diventata la Grande Crisi dopo il ’29. Niente panico, state fermi, le solite frasi fatte da TG1. Ma già a marzo 2009 Piazza Affari aveva patito più delle altre borse europee. Sullo sfondo s’intravedevano le preoccupazioni sui titoli bancari italiani. L’uragano si abbatteva su Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banco Popolare. Per infondere liquidità, ad ottobre, fra il gruppo di Profumo e Bankitalia avveniva uno swap di titoli di stato per 1,9 miliardi di euro, operazione che ricadeva nel piano di misure anti-crisi proposta dal governo. Stessa musica per Intesa e Monte dei Paschi di Siena. Anche in questo caso, il mercato – volatile come non mai – bocciava le misure adottate al fine di garantire contanti alle banche. Piazza Cordusio varava un aumento di capitale nell’ordine di 3 miliardi di euro, pur contando sui Tremonti Bond per altri 3 miliardi e sugli aiuti a Bank of Austria per 4,5 miliardi. Ma a pesare era la quantità di derivati su cui era esposto il gruppo verso l’Est Europa, mentre nessuno sembrava considerare più improbabile un default di Paesi quali Polonia, Lettonia ed Ucraina, la cui situazione all’epoca metteva i brividi agli investitori. E questa era la situazione del biennio 2008-2009, allo scoppio della crisi dei subprime e alla vigilia della recessione occidentale. Quella che avrebbe portato al credit crunch, alla crisi dei Debiti Sovrani, alle mega sofferenze delle banche italiane. Riportando le lancette dell’orologio indietro di quasi 9 anni, forse, il TG1 non avrebbe aperto l’edizione delle 20.00 invitando gli italiani a non farsi prendere dal panico. Tornando indietro, l’ottimo editorialista de Il Sole 24 Ore di allora ci avrebbe forse sollecitato ad allacciare le cinture di sicurezza. Il peggio non era affatto alle spalle, ma si celava dietro al suadente sorriso di un postino che suona sempre due volte, alla porta del contribuente italiano.
La prospettiva della vigilanza bancaria tra passato e futuro. Il ruolo di Bankitalia e dell’EBA. Lo scandalo di Banca Popolare di Bari
Dopo il caso Popolare di Bari, salvata pochi giorni fa dal governo Conte II con un investimento in extremis da 900 milioni di euro, e che segue a stretto giro gli spinosi casi di salvataggio della banca Carige di Genova (governo Conte I) e delle due Banche venete (governo Gentiloni), senza dimenticare il salvataggio di Mps (governo Monti e seguenti) e Banca Etruria insieme alle altre popolari del Centro Italia (governo Renzi, proprio nel dicembre 2015, sembra ieri), c’è chi torna a mettere in dubbio la capacità di vigilanza esercitata da Bankitalia. Un solo dato: Bankitalia vigilava sulla Pop di Bari dal 2010, ma – evidentemente, visti i risultati – non è stato sufficiente. Un tema caldissimo e complesso che il Paese dovrà affrontare in maniera seria, approfondita e soprattutto pragmatica (affinché certe inefficienze nella gestione delle crisi bancarie, ammessa da Andrea Enria della BCE, non si ripetano mai più). Senza però cedere alle facili scorciatoie del populismo che, dai tempi dello scandalo Mps, agita il vessillo delle crisi bancarie come arma contro le élite incapaci e paventa lo spettro del Bail In per terrorizzare i risparmiatori coinvolti nei crac bancari e fare piazza pulita delle vituperate classi dirigenti, buttando il bambino con l’acqua sporca. Ma non è semplice fare chiarezza, mentre soffia forte il vento dell’antipolitica: proprio in queste ore Elio Lannutti, ex capo dell’Adusbef, pur avendo un figlio dipendente della Popolare di Bari, si presenta come il candidato del M5S alla presidenza della Commissione d’inchiesta sulle banche, difeso ad oltranza da Antonio Di Pietro contro PD e Italia Viva (IV) che invece accusano Lannutti di essere un professionista della demagogia e perfino antesemita (in effetti il senatore pentastellato non mancò di esibire sulla sua bacheca Facebook “I Protocolli di Sion”, una paccottiglia complottista antisemita, usata perfino dal nazifascismo contro gli ebrei: una delle più smascherate Fake News della storia, insomma, ma che nei sottoboschi social gira indisturbata insieme alle bufale più abusate). Ma, al di là delle reciproche accuse fra i difensori di Lannutti e i suoi detrattori, un vero fuoco incrociato che paralizza il Parlamento in queste ore, rimane sul tavolo il tema vero: in Italia e nell’Eurozona qualcosa non funzione nella gestione dei crac bancari. Anche il Presidente della Vigilanza BCE sulle banche, Andrea Enria, nel corso di una conversazione con gli studenti all’Università La Sapienza, interpellato sulla Pop di Bari, ha chiosato: “La mia esperienza è che il punto chiave è che non ci siamo ancora sull’efficacia e sul funzionamento del meccanismo per gestire le crisi bancarie“. Parole pesanti che vanno prese in grande considerazione.
Però, prima di affrontare le crisi bancarie di questi anni (iniziati con Banca 121 e Mps, seguiti con le banche del centro Italia che tanto livore hanno causato agli ex governi e di cui parlerò nei prossimi post…), vorrei partire da un punto fermo: un conto è mettere a punto la cassetta degli attrezzi per gestire le crisi, un altro è mettere in dubbio, con superficialità ed arroganza, l’indipendenza della Banca d’Italia. Migliorare i processi e rendere la gestione delle crisi più efficace sono obiettivi da raggiungere in tempi brevi, anche nel caso di una banca catalogata come meno rilevante per le sue ricadute sistemiche. Tuttavia, nel frattempo, ci permettiamo di ricordare che l’indipendenza di Bankitalia rimase l’unica ancora di salvezza per recidere in maniera netta l’intreccio di malaffare e di criminalità già ai tempi dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, l'”eroe borghese“, ucciso freddamente perché si era rifiutato di farsi cooptare nel sistema Sindona, un affarista senza scrupoli, personaggio dai due volti, ma soprattutto uomo della mafia che Licio Gelli (allora al vertice della P2, loggia massonica segreta Propaganda 2) avrebbe voluto a capo di Bankitalia al posto del grande Guido Carli. Parliamo degli anni del crac del Banco Ambrosiano: sembrano trascorsi secoli da allora, ma, senza questa doverosa premessa, così lontana negli anni e avvolta nella nebbia per i ragazzi che oggi leggono i quotidiani, forse dovremmo chiudere il Mac e darci all’ippica. Perché allora fu l’intreccio di un mondo fin troppo chiuso, con un credito rarefatto, che arrivò a controllare i gangli dello Stato, della magistratura, della politica e della finanza, al centro di una ragnatela del potere occulto. Per dare un’idea di quegli anni bui, densi di morti ammazzati e fatti tragici, in cui uomini specchiati come Ambrosoli pagarono con la vita la loro fedeltà allo Stato italiano, ricordiamo solo un paio di aneddoti, citati di recente da Ferruccio de Bortoli: Andreotti giunse a salutare Sindona, già benedetto come sincero anticomunista, come “un salvatore della Lira“.
Ma chi era in realtà Michele Sindona e perché l’indipendenza di Bankitalia non può essere messa in dubbio neanche oggi? Da una parte il mondo conosceva il volto pubblico, rampante ma all’apparenza pulito di Sindona, uomo potente con un affermato studio in Via Turati, nel cuore della Milano pulsante degli affari, uno speculatore capacissimo, spregiudicato ma vincente, capace di conquistare tutte le copertine patinate della stampa (pure La Repubblica ne subì il fascino in una fase iniziale, essendo all’oscuro delle origini della fortuna di Sindona) e, fra un accordo e l’altro, stipulava patti di grande successo, ma, dietro l’immagine di pubblico dominio Sindona nascondeva una seconda faccia, come un novello Giano bifronte, il volto oscuro del Potere. Solo Ugo La Malfa, l’indimenticabile capo del Partito Repubblicano italiano (PRI) ne aveva colto in pieno il pericolo: Michele Sindona era infatti, nella realtà, un affarista senza scrupoli, capace di costruire un impero acquisendo piccole realtà bancarie che versavano in enorme difficoltà e venivano messe insieme, manovrando nel sottosuolo un mondo buio e criminale la cui frequentazione alla fine gli costò la sua stessa vita. Alla fine dei ruggenti anni ’60, gli anni del boom economico in cui l’Italia galoppava a ritmi cinesi, Sindona aveva raggranellato un piccolo grande gruzzolo, oggi si direbbe un tesoretto: 40 milioni di dollari, un’enormità per quell’epoca in cui l’Italia, ex rurale, in piena industrializzazione post-bellica, emergeva dalla frugalità e si affacciava nel dorato mondo del benessere occidentale. Perfino le Bibbie del business anglosassone come Time e Business Week incensavano Sindona come un esempio da imitare, anche la politica italiana ne era ammaliata. All’apice del successo nell’alta finanza a stelle e strisce, il nostro Giano Bifronte arrivò a mettere le mani sulla 20esima banca d’America, entrando nel giro di un brillante avvocato conservatore, anch’egli astro nascente nel mondo politico americano, Richard Nixon, futuro Presidente degli USA (sì, quello del Watergate) e dei circoli oltranzisti di destra, il cosiddetto “partito del golpe”. Ma è un Cittadino al di sopra di Ogni Sospetto, apprezzato perfino da Montini (futuro Pontefice, col nome di Papa Paolo VI), che lo scelse come socio dello Ior. Parliamo dello Ior di Marcinkus, un uomo che (secondo Sindona) “s’illuse di diventare banchiere” senza averne le capacità. Fin dagli anni ’60, Sindona era amico di Licio Gelli, il creatore della P2, che, come dicevamo, avrebbe voluto spingere Sindona alle soglie del tempio del Potere, addirittura a capo di Bankitalia. Il giornalista Enzo Biagi fu uno dei primi a illustrarne ombre e luci. Sindona, che negava di coltivare progetti eversivi, non considerava Licio Gelli un filantropo, ma un anticomunista “sincero” dopo l’uccisione del fratello nella guerra civile di Spagna. Andreotti arrivò a definire Sindona come “un salvatore della Lira“. Questo era lo scenario che si presentava a un lettore distratto di giornali.
La caduta di Sindona fu repentina e rumorosa quanto la sua stellare ascesa e coincise con una recessione mondiale. Provocò un buco enorme, una voragine, il crac bancario insieme alla scoperta delle scatole vuote. Fu uno choc scoprire che Sindona fosse il banchiere della mafia. Lui, definito Uomo dell’anno dall’ambasciatore americano dell’epoca, si dichiarò un perseguitato. Quando Guido Carli affidò a Giorgio Ambrosoli il ruolo di Liquidatore Unico dell’impero di Sindona, prima apprezzò l’idea di distruggere quella rete malata, il puzzle dei crediti e debiti di quell’impero (connessioni fra la banca privata, i partiti politici, massoni, cardinali, capitali della mafia…), ma subito capì di essere solo. E Ambrosoli ancora più isolato.
L’indipendenza della Bankitalia fu l’unica ancora di salvezza per rompere questo intreccio di malaffare e criminalità. A farne le spese fu l’eroe borghese Giorgio Ambrosoli, ucciso freddamente perché si era rifiutato di farsi cooptare. Fu il primo di una serie di efferati omicidi, cui seguì il “caffè alla Pisciotta” che uccise Sindona. E poi la scoperta del cadavere di Roberto Calvi, trovato impiccato a una corda legata sotto il ponte dei Frati neri di Londra. Ma questa è un’altra storia.
La verità è che, senza Guido Carli e senza l’indipendenza della Banca d’Italia, la storia d’Italia sarebbe stata costellata di orrori (ed errori) ancora più funesti. Quindi, gettiamo l’acqua sporca, risolviamo urgentemente il nodo della gestione dei crac bancari, semplifichiamo e rendiamo efficiente la vigilanza (aver costretto la Pop di Bari a comprare la Banca fallita Tercas, imbarcando una mole eccessiva di crediti deteriorati Npl, non ha certo giovato, anche se è stata solo una delle tante negligenze, in una banca che taroccava i conti ad ogni livello). Ma non gettiamo il bambino con l’acqua sudicia. Lo dobbiamo anche solo alle memoria (condivisa) di Guido Carli e di Giorgio Ambrosoli. E alla messa in sicurezza del sistema bancario italiano, su cui pesa il debito pubblico, il vero macigno che impedisce al Paese di uscire dalle sue ricorrenti crisi.