Anche nel recente Referendum sul taglio dei Parlamentari, la vittoria a valanga per il Sì ha riacceso i fari sul tema – già ampiamente dibattuto ai tempi del Referendum britannico sulla Brexit, del Referendum Costituzionali perso da Renzi e della vittoria di Trump nelle Presidenziali USA del 2016 – del rapporto fra Centro (le aree Ztl dove vivono le élite) e Periferie (dove ribolle la frustrazione della Classe Media impoverita e la rabbia anti-élite in cui si crogiola il cosiddetto Populismo). Ne ha già parlato con grande competenza Dario Di Vico sul Corriere della Sera, dunque non mi dilungherò ulteriormente, invece, qui su Malatempora, vorrei osservare come lo Smartworking sta ridisegnando le città e il rapporto centro vs. periferia.
Lo Smartworking, che poi non è il telelavoro, ma una riorganizzazione del lavoro agile, laddove è ben fatto, ha generato un incremento della produttività. In UK, dove per altro la seconda ondata è così severa da costringere il Primo ministro Boris Johnson a prendere nuove misure drastiche per limitare la diffusione della pandemia da Covid-19, l’agenzia pubblicitaria Pablo London ha dichiarato che la sua produttività è talmente aumentata da prendere una storica decisione: rinunciare ai tradizionali spazi in ufficio e devolvere quanto risparmiato per l’affitto a charity dedicate ai senza tetto. Saranno gli homeless, gli ultimi degli ultimi, in grande aumento a causa della quarantena e dalla recessione innescata dalla crisi sanitaria, a guadagnare dallo Smartworking.
Il lavoro agile spalanca porte in un mondo nuovo, aprendo davvero scenari inediti nelle nostre città, dove i centri si erano svuotati per effetto del fenomeno della Gentrification. Per i tanti bar che vivevano vendendo caffè, aperitivi e tramezzini ai lavoratori degli uffici delle zone Ztl, lo Smartworking è una tragedia, ma un conto è trovare una soluzione, anche con progetti di formazione per i dipendenti che stanno perdendo il lavoro, un altro è denigrare un fenomeno dalle interessanti potenzialità. Ma l’esperimento socio-economico del Lockdown sta davvero rimescolando le carte.
Abitare lontano dai posti di lavoro, lavorando da remoto, magari in piccoli centri con un minor costo della vita e una qualità della vita più alta, sta diventando un’opzione interessante per molte persone e famiglie. Il modello di sviluppo policentrico potrebbe tornare di moda, ripopolando campagne e piccoli centri che negli anni si erano spopolati.
Questo fenomeno, al momento in fieri, potrebbe sconquassare quelle gerarchie urbane fra centro e periferia che dominavano fin dalla prima Rivoluzione Industriale, portando masse di contadini nelle periferie cittadine per diventare operai nelle fabbriche e andare a ingrossare i palazzi di periferia urbana. Da sempre, le città attraggono capitale umano, forti della loro storia e della cultura, dei servizi offerti, delle infrastrutture avveniristiche, degli atenei secolari in grado di attrarre talenti e di catalizzare scambi di idee, delle piazze finanziarie dove girando i Grandi Capitali, dei fiorenti commerci capaci di far girare l’economia. Il successo di una città è dovuto alla sua posizione geografica: pensiamo al ruolo delle reti fluviali, in grado di garantire l’approvigionamento alimentare e lo sbocco commerciale di merci, e di tagliare i costi per raggiungere i mercati finali. Le gerarchie urbane, da sempre dinamiche, hanno visto in Francia radicarsi un modello di sviluppo centralizzato, che parte a raggiera da Parigi, mentre in Germania è sbocciato il modello diffuso del sistema federale. Poi, le alterne vicende di una città ne hanno decretato l’influenza o meno, seguendo i corsi e ricorsi della storia.
A produrre un primo grande ribaltamento delle gerarchie urbane è stata la globalizzazione, nella sua prima fase arrembante, quando a decidere tutto era la logistica delle aziende, interessate a ridurre i costi e massimizzare i profitti, spezzettando la produzione e l’assemblaggio in giro per il mondo. Il fattore Localizzazione, nell’era delle delocalizzazioni, è diventato secondario rispetto al fattore Aggregativo, tanto che – nel giro di una manciata di stagioni, città fino ad allora fiorenti e piene di vita diventavano d’un tratto Ghost city, città rese fatiscenti e fantasma dalla crisi innescata in un particolare settore industriale. Invece manteneva alto il suo status il fattore Aggregazione, dal momento che le professioni intellettuali traggono enorme vantaggio dalle interazioni sociali e culturali, l’humus ideale per far crescere rigogliosi hub tecnologici, poli finanziari, startup innovative.
Le città-Stato monocentriche hanno guadagnato terreno, popolarità ed influenza da questo modello di sviluppo che incoronava fulcri, in grado di attrarre capitali e talenti, mentre le periferie di questo sviluppo, le campagne e i poccoli centri, si svuotavano e la loro ricchezza si assottigliava, allargando il divario fra i vincenti della globalizzazione e i perdenti.
Ora lo Smartworking, con il suo carico da novanta posto sulla bilancia a vantaggio della produttività, sta ipotecando il ruolo della concentrazione urbana e del modello monocentrico. Se vengono privilegiate le brevi, ma intense riunioni su Zoom, rispetto ai lunghi, infruttuosi quotidiani incontri in ufficio, che senso ha ancora il fattore aggregativo? E che fine fa la concentrazione urbana in città affollate, inquinate e costose?
Il lavoro da remoto, grazie alla diffusione della banda ultra larga su tutto il territorio nazionale, può innescare lo spostamento dalle città ai piccoli centri, promuovendo lo sviluppo policentrico verso località minori, finora in declino economico e demografico, ma rese competitive nell’era dello Smartworking. I professionisti del lavoto agile potrebbero godere del maggior potere d’acquisto e di una qualità della vita più alta proprio nei piccoli centri e perfino in aree rurali, tutte raggiunte dall’e-commerce e dalla fibra FTTH.
Aree economicamente depresse potrebbero ripopolarsi, grazie ai trasferimenti di residenza, riequilibrando la geografia dell’afflusso della ricchezza. La concentrazione finanziaria in pochi grandi centri potrebbe diminuire, disseminando la ricchezza in tante località oggi periferiche che potrebbero conoscere una rinascita, demografica, economica e culturale, colmando quei divari che hanno gonfiato le vele in poppa ai populismi. La dicotomia fra zone Ztl/Periferie, fra centri urbani vs. campagne, potrebbe sfumare progressivamente con la minore concentrazione di ricchezza in poche mani, mentre i grandi centri urbani manterrebbero la loro influenza grazie alle sedi delle aziende, perché lo smartworking è delocalizzato, ma il lavoro no. Il lavoro da remoto, insomma, ridisegna le città, ma anche l’economia e la politica, rimescolando tutte le carte.
1.1 IL FRAMEWORK TEORICO E I RIFERIMENTI STORICI E NORMATIVI
Ancora nel 2010, quando ormai la gravità della crisi finanziaria internazionale ha raggiunto il suo acme e gli effetti sull’economia reale portano a pesanti contrazioni dei PIL nazionali, il Ministro del Tesoro italiano, Giulio Tremonti, afferma: “i risultati relativi agli stress test svolti su cinque gruppi bancari italiani ne mostrano la solidità patrimoniale e la stabilità, anche rispetto a scenari caratterizzati dalle condizioni macroeconomiche più penalizzanti e meno probabili”2.
In effetti, nonostante il Paese fosse nel pieno di una crisi finanziaria epocale e il sistema creditizio avesse iniziato a razionare il credito in maniera preoccupante, non vi erano avvisaglie dei gravi problemi che da lì a poco avrebbero portato il comparto bancario al centro dell’attenzione pubblica sia per le operazioni condotte dai singoli istituti sia per le ipotesi delittuose che stavano progressivamente iniziando ad emergere.
Le parole del Ministro Tremonti appaiono suffragate – specie se rilette nel tempo – dai fatti: “Se il governo statunitense ha tirato fuori 700 miliardi di dollari, quelli europei avevano sborsato a tutto il 2014, secondo un calcolo della Banca d’Italia, una cifra non troppo lontana: più di 500 miliardi di euro. Al cambio dell’epoca, ben oltre 600 miliardi di dollari. Quasi la metà, 250 miliardi a carico della Germania; e poi 60 della Spagna, 50 a testa di Irlanda e Olanda, 19 di Belgio e Austria, 18 del Portogallo. L’Italia? Appena 4 miliardi, e tutti per il Montepaschi. (…). Ci sono ben 13 gruppi bancari che esibiscono una eccedenza di capitale monumentale: 25 miliardi e mezzo”3.
Non è certo il quadro d’insieme del sistema bancario nazionale a impensierire.
E’ piuttosto la sensazione che, nonostante le diffuse rassicurazioni, l’economia stia davvero rallentando e non soltanto per effetto della crisi globale ma soprattutto per la difficoltà di trasmissione degli impulsi monetari.
In questo ambito la questione degli Istituti di Credito diviene centrale: il calo della produzione industriale è sensibile, siamo nel mezzo di una imponente recessione e gli stimoli monetari vengono trasmessi a imprese e famiglie con gravi difficoltà e ritardi.
3 – Sergio Rizzo, 2018, Il Pacco, pag 15-16, Feltrinelli
E’ dunque opportuno interrogarsi se le difficoltà di finanziare il sistema dell’economia reale dipenda dalle condizioni generali del sistema economico o da specificità del sistema creditizio che non favorisce una corretta intermediazione.
Gli aspetti esaminati portano a considerare anzitutto l’ambito territoriale e le sue dinamiche, la tipologia del canale prescelto per ottenere finanziamenti, gli elementi strutturali per la concessione del credito.
L’ambito territoriale presenta una diversificazione importante in ordine all’andamento economico contingente e distrettuale; l’evoluzione della crisi dimostrerà che le banche locali avevano già maturato una condizione di dissesto finanziario mai riconosciuto apertamente e non erano certamente in grado assumere nuovi e più gravosi impegni di sostegno alle imprese in difficoltà.
E’ possibile ravvisare nell’insieme dei poteri locali, nella deviazione dai fini istituzionali e nelle aderenze politiche, che spesso hanno condizionato la gestione bancaria, le ragioni del fallimento di una sana e corretta politica del credito. Gli esempi più conosciuti sono: il senese con Mps – e i suoi riflessi come banca di sistema; il contesto ligure con Banca Carige e il Veneto con Bpvi e Veneto Banca.
La tipologia del canale prescelto. Mentre per i più grandi gruppi industriali è possibile sacrificare in parte gli utili d’esercizio o utilizzare le riserve finanziarie intra-gruppo, la struttura delle piccole e medie imprese e le famiglie fanno largo ricorso al canale bancario per finanziare gli importi correnti o per avere fonti per nuovi investimenti.
Le banche possono essere costituite in due modi: tramite la forma giuridica della società per azioni oppure tramite la forma della società cooperativa per azioni a responsabilità limitata (“L’esercizio dell’attività bancaria da parte di società cooperative è riservato alle banche popolari e alle banche di credito cooperativo”, art.28 D.Lgs. 385/1993).
La banca costituisce, per tradizione storica e radicamento territoriale, la modalità principale per la gestione dei rapporti finanziari più diretti e immediati, consentendo operazioni di conto corrente, di accredito di denaro e di prelievo, ma soprattutto costituisce l’interlocutore naturale per il finanziamento di esigenze specifiche o contingenti, spesso possibile grazie alla relazione personale o alla specializzazione dell’operatore bancario nel settore di maggiore richiesta.
Gli elementi strutturali per la concessione di credito. Se l’apparente solidità economica e/o finanziaria del debitore ha rappresentato e rappresenta tuttora il filtro principale per la richiesta di credito non vanno sottovalutate le dinamiche di trasformazione economica e d’impresa che hanno velocemente imposto un cambio di paradigma. Mentre la crisi economica diffonde timori di insolvenze e rallenta la concessione di nuovi prestiti, ben presto anche le situazioni considerate più solide entrano in sofferenza. Se l’elemento discrezionale per il prestito ha sempre avuto per l’erogante un connotato di ampiezza e favore difficilmente riscontrabile in parametri uniformi, la rapida evoluzione tecnologica mette tutti con le spalle al muro: è difficile concedere nuovi crediti, vi è una crisi generalizzata di fiducia, le forme alternative di credito si vanno moltiplicando a tutto vantaggio dell’equity.
Ne deriva così una radicale trasformazione sia dell’esigenza del credito – che in una fase di perenne emergenza assume la condizione di necessità per sopravvivere – sia dello spostamento nelle forme di finanziamento (sul modello della pecking order theory: finanza interna e cash flow, canale bancario e forme alternative e partecipative)4.
Per definire il quadro d’insieme dello stato di salute e operatività del sistema bancario, posto che risulta impossibile desumere dai dati di bilancio disponibili di ciascuna realtà la condizione analitica dei flussi di reddito e dei rischi, possiamo fare rimando all’esame di Claudio Porzio5 che così sintetizza i possibili ambiti di indagine:
gli interventi di moral suasion della Banca d’Italia a seguito dell’attività di vigilanza ordinaria e sulla base delle anomalie riscontrate;
i risultati di bilancio ordinario (esercizio) e le operazioni di fusione e trasferimento di proprietà;
l’andamento di indicatori di bilancio paragonabili con quelli in uso dal FITD (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) per monitorare le situazioni di crisi potenziali ed effettive.
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4 – Testing Static Tradeoff against Pecking order Models of Capital Structure, L. Shyam-Sunder and S. C. Myers, Journal of Financial Economics, pp. 219-244, 1999
5 – Claudio Porzio, Un decennio di crisi bancarie: uno sguardo d’insieme, Working papers, Incontro di studio, Roma, 9 Dicembre, 1998
La prima conclusione è che il dipanarsi della crisi economica evidenzia principalmente un problema di finanziamento all’economia reale; non vi sono però elementi per parlare di crisi del settore bancario; la crisi economica non appare pertanto legata al cattivo stato di salute delle banche e alla modalità di erogazione del credito.
Il rallentamento nella crescita dei prestiti sembra dipendere dai meccanismi di trasmissione degli impulsi di politica monetaria stabiliti dalle autorità centrali (Bce)6.
Gli ambiti di analisi più puntuali mostrano invece un progressivo cedimento strutturale per un’insufficienza specifica del mondo bancario che ha concesso credito in modo discrezionale e non avverte per tempo in cambiamento storico alle porte.
Infine l’operatività del sistema bancario è stata sicuramente attraversata da una serie di crisi invisibili che fanno rimando ad un sistema puntale di controlli diretti e indiretti lasciando la soluzione delle problematiche eventualmente emerse ad un regolazione interna al sistema stesso che non consente di dare risposte chiare e tantomeno evidenti sull’effettiva solidità del sistema bancario.
1.2 L’EVOLUZIONE DEL QUADRO NORMATIVO E L’AVVIO DELLA BCE
La riforma del 1993 (c.d. Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, D.Lgs. 385) introduce alcuni principi cardine di riforma del sistema:
la liberalizzazione dell’attività bancaria;
la privatizzazione degli istituti bancari, in larga parte ancora controllati dallo Stato;
il superamento del concetto di specializzazione bancaria che consente l’erogazione di credito senza limiti temporali e/o di settore;
la prudente gestione dell’attività creditizia e la ricerca della stabilità del sistema finanziario al fine di tutelare il risparmio pubblico (dando così piena attuazione all’art.47 della Costituzione);
la limitata possibilità di acquisizione di partecipazioni in imprese del settore creditizio o in altri settori;
la forma giuridica dell’impresa bancaria (supra, par.1).
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6 – In effetti la Bce aveva inizialmente rialzato i tassi di interesse (luglio 2008) in seguito all’aumento dell’inflazione core. Il Presidente Jean-Claude Trichet dovette in breve correggere l’indirizzo di politica monetaria proprio a seguito della crisi economica e delle critiche ricevute. Cfr. James Surowiecki, Internazionale, 15 settembre 2011, web: www.internazionale.it/opinione/james-surowiecki/2011/09/15/il-grande-errore-di-trichet
“Nel 1998, con l’approvazione della legge n.461 (c.d. legge Ciampi) e con il successivo decreto applicativo n.153/99, il legislatore provvide, da un lato, a creare i presupposto per un completamento del processo di ristrutturazione bancaria avviato con la legge Amato e, dall’altro, a realizzare una revisione della disciplina civilistica e fiscale delle Fondazioni.
Per effetto della riforma attuata dalla legge Ciampi, la cui prima fase si concluse con l’approvazione degli statuti da parte dell’Autorità di vigilanza (Ministero del Tesoro), “le Fondazioni sono persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale” (art.2 D.Lgs. 153/99).
Con la legge Ciampi, inoltre, l’iniziale obbligo di detenere la maggioranza del capitale sociale della banche conferitarie fu sostituito da un obbligo opposto: la perdita da parte delle Fondazioni del controllo delle società stesse. Per incentivare la perdita del controllo fu previsto dalla legge un regime neutralità fiscale per le plusvalenze realizzate nella dismissione (…)”7
Per comprendere appieno l’evoluzione del quadro normativo del settore bancario in atto dal 1990 è opportuno rischiare le sentenze n.300 e 301 del 2003 della Corte Costituzionale:
ha affermato che l’evoluzione legislativa intervenuta dal 1990 ha spezzato quel “vincolo genetico e funzionale”, “vincolo che in origine legava l’ente pubblico conferente e la società bancaria, e ha trasformato la natura giuridica del primo (prima ente conferente, oggi Fondazione) in quella persona giuridica e privata senza fine di lucro (art.2, comma 1, d.lgs. 153/99) della cui natura il controllo della società bancaria, o anche solo la partecipazione al suo capitale, non è più elemento caratterizzante;
ha sancito una volta per tutte la natura privata delle Fondazioni di origine bancaria, ribadendo che sono collocate nell’ordinamento civile e che la competenza legislativa sulle stesse compete allo Stato (…);
ha dichiarato incostituzionale la prevalenza negli organi di indirizzo delle Fondazioni dei rappresentanti di Regioni, Province, Comuni, Città Metropolitane (…);
ha stabilito al contrario che la prevalenza deve essere assegnata a una qualificata rappresentanza di enti, pubblici e privati, espressivi della realtà locale;
ha valutato incostituzionale l’utilizzo di atti amministrativi da parte dell’Autorità di Vigilanza che comprimano indebitamente l’autonomia delle Fondazioni: cioè gli atti di indirizzo di carattere generale o i regolamenti intesi a modificare l’elenco dei settori di utilità sociale (…);
ha definito il concetto di controllo congiunto da parte di più Fondazioni presenti contemporaneamente nell’azionariato di una banca, evidenziando che questo sussiste solo se fa di esse c’è un patto di sindacato accertabile.8
Prosegue inoltre l’Acri: “Con senso di responsabilità, dopo la crisi scoppiata nel 2008, mentre gli investitori istituzionali uscivano dalle banche italiane, le Fondazioni non hanno fatto mancare il proprio sostegno e, quando le Autorità di vigilanza, EBA in testa, hanno chiesto interventi di ricapitalizzazione, esse hanno partecipato a consistenti quanto determinanti aumenti di capitale”9.
Gli interventi legislativi degli anni ‘90 ci presentano dunque una rapida evoluzione del sistema bancario sul versante interno, nel tentativo di rispondere sia al bisogno di modernizzazione del settore sia all’attuazione delle condizioni più stringenti imposte dal quadro di riferimento internazionale, in primo luogo dalle regole comuni europee mentre ci si prepara all’introduzione della moneta unica.
Si moltiplicano però anche i segnali di una debolezza di fondo e delle difficoltà connesse ad interpretare il cambiamento nella corretta prospettiva di una crescita dimensionale (si parla spesso di big player ma il sistema finisce spesso per ripiegare sul dato locale di provincia).
Su scala nazionale si tenta di resistere alla forte spinta di aggregazione del settore proveniente dall’estero e si ripetono quasi le stesse dinamiche che interessano il livello locale: la Banca d’Italia, purtroppo, sarà in prima linea nella scelta impropria e molto controversa di favorire una resistenza alle acquisizioni (su tutte possiamo ricordare il tentativo di Abn per Antonveneta e quello di Bbva per Bnl).
Se il 2005 fa emergere in modo drammatico i ritardi accumulati e porta a sviluppi giudiziari che compromettono seriamente la credibilità delle stesse Autorità di controllo, è ancora il dato normativo che va considerato con la massima cura.
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8 – sito Acri, ibidem
9 – sito Acri, ibidem
Il processo di convergenza su scala globale iniziato negli anni ’80 aveva già prodotto importanti adeguamenti nelle linee guida del settore bancario.
Sebbene il Comitato di Basilea per la Vigilanza bancaria sia di fatto un organo consultivo internazionale istituito nel 1974 dalle banche centrali dei paesi del G10, i suoi compiti istituzionali sono quelli di definire una regolamentazione della Vigilanza Bancaria, per assicurare stabilità al sistema finanziario globale.
Il Comitato non ha dunque potere legislativo, ma formula proposte che dovranno essere recepite nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali. L’obiettivo è che le sue proposte vengano recepite dal maggior numero possibile di Stati, per rendere omogenea a affrontabile la normativa sulla Vigilanza Bancaria.
La portata delle proposte del Comitato e le tempistiche di attuazione assumono un carattere di assoluto rilievo per comprendere uno snodo fondamentale della crisi finanziaria del 2008.
Mentre ancora si cerca di capire la portata della crisi stessa e le sue implicazioni divengono di giorno in giorno più evidenti per le devastanti ricadute sociali, il Comitato approva, il 12 settembre 2010, le linee guida per Basilea 3, ossia un memorandum d’intesa che ha il dichiarato intento di prevenire l’eccessiva assunzione di rischi da parte degli operatori, rendere il sistema finanziario più solido e stabilire un terreno di gioco davvero uniforme.10
Le misure riguarderanno gli intermediari finanziari, obbligando ad introdurre standard minimi di liquidità; la definizione di capitale regolamentare e il contenimento del livello di leva finanziaria favorendo così una migliore copertura dei rischi di mercato e di controparte e riducendo la “prociclicità” delle regole prudenziali.
Sul versante europeo, specialmente in ambito euro, assume rilievo l’avvio dell’azione della Banca Centrale Europea. In breve tempo emergono le diverse problematiche relative alla convergenza dei sistemi economici dei paesi aderenti alla moneta unica, al trasferimento dei poteri dalle banche centrali nazionali alla stessa Bce, al coordinamento dei sistemi di vigilanza sull’intero sistema del credito.
La Bce è la banca centrale dei 19 Stati membri dell’Unione europea che inizialmente hanno adottato l’euro.
Nonostante il fine istituzionale primario dell’Istituto Monetario sia mantenere la stabilità dei prezzi, ossia di salvaguardare il valore dell’euro11, si pone da subito il tema del rapporto tra l’Istituto stesso e il sistema delle banche centrali nazionali, delle rispettive prerogative e competenze.
E’ dunque chiaro che la Bce si avvii rapidamente a svolgere quell’attività di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi insediati nell’area dell’euro e negli Stati membri partecipanti non appartenenti all’area. Essa contribuisce in tal modo alla sicurezza e alla solidità del sistema bancario nonché alla stabilità del sistema finanziario nell’Ue e in ogni Stato membro partecipante12.
Abbiamo così una seconda conclusione sull’evoluzione della trasformazione del settore bancario italiano.
Da una parte le riforme italiane del 1993 e del 1998 che mirano a rafforzare il settore consentendo la liberalizzazione del settore creditizio; dall’altra un quadro internazionale in rapida accelerazione che impone nuovi e più stringenti parametri per garantire la solidità del sistema mentre l’introduzione della moneta unica impone un maggiore coordinamento a livello europeo che si traduce nell’esigenza di favorire i processi di convergenza e di stabilità.
Non può sfuggire che la tempistica delle riforme in atto e gli effetti indotti dalla crisi finanziaria del 2008 impongano un rapido ripensamento di tutto il settore bancario e determinino problemi inaspettati di copertura dei rischi. Mentre ci si concentra sui nuovi standard internazionali si ottiene l’effetto inatteso di rallentare la trasmissione degli impulsi monetari contribuendo in parte ad aggravare gli effetti stessi dalla crisi in atto.
Petrolio a 69 dollari. L’incognita Libia, dove l’Italia rischia di perdere affari per 140 miliardi. L’incubo di una nuova guerra in Medio-Oriente, mentre infuria il conflitto inter-sunnita (sauditi contro i turchi di Erdogan, nuovo terreno di scontro la Libia contesa da Haftar, alleato dell’Egitto di Al-Sisi e della Russia di Putin, contro al-Serraj che aspetta ansiosamente l’aiuto turco), sullo sfondo del millenario scisma sunniti-sciiti, dove l’iraniano Qassem Soleimani, il potente generale di cui oggi si celebrano le esequie a Teheran, era al momento uscito (apparentemente) vittorioso con la creazione della “Mezzaluna Sciita“, dal Libano all’Iraq fino alla Siria Alawita di Assad e naturalmente l’Iran. E proprio in queste convulse ore, l’uccisione (in un Paese terzo, dettaglio da non trascurare) con un drone americano dello stratega iraniano Soleimani si grida “Morte all’America” e il mondo si è improvvisamente risvegliato sull’orlo di una nuovo conflitto in Medio-Oriente, questa volta al centro dei giochi l’Iran, già massacrato dall’embargo americano decretato dopo la fine dell’accordo (siglato dal precedente Presidente Obama, e dall’Europa, e stracciato dal Presidente Trump) sul nucleare.
Il caos globale è servito: uno scacchiere in fiamme, in cui un Presidente USA sotto impeachment si presenta come Commander in Chief in uno scenario di guerra. Dopo aver gettato un candelotto di dinamite in una Santa Barbara, quale è oggi il Medio-Oriente, dopo gli anni tragici della guerra in Siria, quella in Iraq, l’eterno conflitto israelo-palestinese, il Libano e l’Iraq percorsi da tensioni e cortei anti-Iran (contro il progetto di “Mezzaluna sciita” di Soleimani, assassinato da un attacco americano in Iraq, poche ore dopo l’assalto all’ambasciata USA che, se fosse riuscita, avrebbe visto per la prima volta sciiti pro-iraniani contro l’esercito americano), il presidente americano Trump si presenta come Colui Che Spariglia le carte della geo-politica: lo aveva già fatto, decidendo di spostare l’ambasciata americana da Telaviv a Gerusalemme, la capitale “contesa”; lo rifa oggi, pur non avendo una strategia complessiva per gestire il post-Soleimani e la probabile tremenda vendetta iraniana che non potrà tardare troppo, dopo mesi di escalation e di scaramucce nel golfo di Oman.
E l’Italia, quali rischi geo-politici corre? Petrolio che sfiora i 70 dollari significa una bolletta energetica alta, mentre pesa già l’incognita della Libia, dove Roma si è rifiutata di mettere i boots-on-the-ground e dove nei prossimi giorni arriveranno le truppe turche di Erdogan, mettendo a serio rischio gli interessi petroliferi dell’ENI (un giro di affari da 140 miliardi), già minacciati dall’avanzamento di Haftar, appoggiato dall’Egitto di Al-Sisi: nel mirino è Noor, il “più grande giacimento di gas delMediterraneo” al largo di Cipro, nel mirino di Turchia, Cipro stessa, Libano, Israele, Iran…
Il 2020 non sarà un anno bellissimo, mentre tramonta la globalizzazione sostituita dal decoupling Cina-America e il Fattore G della geopolitica si riprende la scena, rischiando di mandare in frantumi l’intero sistema economico, già messo a dura prova dalla guerra dei dazi innescata da Trump contro la Cina, in uno scenario in cui i bazooka delle Banche Centrali sono scarichi, dopo anni di tassi a zero, metadone regalato ad eroinomani e borse ai massimi, come se fossero scollate dalla realtà.
La tensione in Medio-Oriente potrebbe tradursi in attacchi contro i pozzi petroliferi in Arabia Saudita o in una vendetta d Teheran contro Israele, esposta in prima linea, fra gli Hezbollah libanesi e iraniani.
L’Italia si trova davanti a una Libia in fiamme, dove Ankara e Mosca allungano la loro influenza, approfittando del disinteresse USA e di un’Europa che non ha una politica estera comune. Il caso dell’omicidio di Soleimani potrebbe imprimere un’accelerazione al decoupling dell’economia cinese e americana, sempre più distanti e divise. Un altro rischio che pesa su Paesi esportatori come il nostro, chiamati a decidere da che parte stare, mentre Mosca e Pechino e Teheran sembrano avvicinarsi perfino nel Golfo indiano e nel Golfo di Oman (per la prima volta in un secolo non più saldamente sotto controllo occidentale).
No, Presidente Conte, neanche il 2020 sarà un anno bellissimo per un’Italia in stagnazione e sottoposta alle tensioni dei mercati e della geo-politica. (E non osiamo immaginare cosa farebbe un ipotetico governo Salvini con “pieni poteri”, in un contesto internazionale dove scegliere gli alleati sembra più complesso di quanto fosse ai tempi della Guerra Fredda dove bastava essere atlantisti per stare dalla parte giusta della storia…).
La prospettiva della vigilanza bancaria tra passato e futuro. Il ruolo di Bankitalia e dell’EBA. Lo scandalo di Banca Popolare di Bari
Dopo il caso Popolare di Bari, salvata pochi giorni fa dal governo Conte II con un investimento in extremis da 900 milioni di euro, e che segue a stretto giro gli spinosi casi di salvataggio della banca Carige di Genova (governo Conte I) e delle due Banche venete (governo Gentiloni), senza dimenticare il salvataggio di Mps (governo Monti e seguenti) e Banca Etruria insieme alle altre popolari del Centro Italia (governo Renzi, proprio nel dicembre 2015, sembra ieri), c’è chi torna a mettere in dubbio la capacità di vigilanza esercitata da Bankitalia. Un solo dato: Bankitalia vigilava sulla Pop di Bari dal 2010, ma – evidentemente, visti i risultati – non è stato sufficiente. Un tema caldissimo e complesso che il Paese dovrà affrontare in maniera seria, approfondita e soprattutto pragmatica (affinché certe inefficienze nella gestione delle crisi bancarie, ammessa da Andrea Enria della BCE, non si ripetano mai più). Senza però cedere alle facili scorciatoie del populismo che, dai tempi dello scandalo Mps, agita il vessillo delle crisi bancarie come arma contro le élite incapaci e paventa lo spettro del Bail In per terrorizzare i risparmiatori coinvolti nei crac bancari e fare piazza pulita delle vituperate classi dirigenti, buttando il bambino con l’acqua sporca. Ma non è semplice fare chiarezza, mentre soffia forte il vento dell’antipolitica: proprio in queste ore Elio Lannutti, ex capo dell’Adusbef, pur avendo un figlio dipendente della Popolare di Bari, si presenta come il candidato del M5S alla presidenza della Commissione d’inchiesta sulle banche, difeso ad oltranza da Antonio Di Pietro contro PD e Italia Viva (IV) che invece accusano Lannutti di essere un professionista della demagogia e perfino antesemita (in effetti il senatore pentastellato non mancò di esibire sulla sua bacheca Facebook “I Protocolli di Sion”, una paccottiglia complottista antisemita, usata perfino dal nazifascismo contro gli ebrei: una delle più smascherate Fake News della storia, insomma, ma che nei sottoboschi social gira indisturbata insieme alle bufale più abusate). Ma, al di là delle reciproche accuse fra i difensori di Lannutti e i suoi detrattori, un vero fuoco incrociato che paralizza il Parlamento in queste ore, rimane sul tavolo il tema vero: in Italia e nell’Eurozona qualcosa non funzione nella gestione dei crac bancari. Anche il Presidente della Vigilanza BCE sulle banche, Andrea Enria, nel corso di una conversazione con gli studenti all’Università La Sapienza, interpellato sulla Pop di Bari, ha chiosato: “La mia esperienza è che il punto chiave è che non ci siamo ancora sull’efficacia e sul funzionamento del meccanismo per gestire le crisi bancarie“. Parole pesanti che vanno prese in grande considerazione.
Però, prima di affrontare le crisi bancarie di questi anni (iniziati con Banca 121 e Mps, seguiti con le banche del centro Italia che tanto livore hanno causato agli ex governi e di cui parlerò nei prossimi post…), vorrei partire da un punto fermo: un conto è mettere a punto la cassetta degli attrezzi per gestire le crisi, un altro è mettere in dubbio, con superficialità ed arroganza, l’indipendenza della Banca d’Italia. Migliorare i processi e rendere la gestione delle crisi più efficace sono obiettivi da raggiungere in tempi brevi, anche nel caso di una banca catalogata come meno rilevante per le sue ricadute sistemiche. Tuttavia, nel frattempo, ci permettiamo di ricordare che l’indipendenza di Bankitalia rimase l’unica ancora di salvezza per recidere in maniera netta l’intreccio di malaffare e di criminalità già ai tempi dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, l'”eroe borghese“, ucciso freddamente perché si era rifiutato di farsi cooptare nel sistema Sindona, un affarista senza scrupoli, personaggio dai due volti, ma soprattutto uomo della mafia che Licio Gelli (allora al vertice della P2, loggia massonica segreta Propaganda 2) avrebbe voluto a capo di Bankitalia al posto del grande Guido Carli. Parliamo degli anni del crac del Banco Ambrosiano: sembrano trascorsi secoli da allora, ma, senza questa doverosa premessa, così lontana negli anni e avvolta nella nebbia per i ragazzi che oggi leggono i quotidiani, forse dovremmo chiudere il Mac e darci all’ippica. Perché allora fu l’intreccio di un mondo fin troppo chiuso, con un credito rarefatto, che arrivò a controllare i gangli dello Stato, della magistratura, della politica e della finanza, al centro di una ragnatela del potere occulto. Per dare un’idea di quegli anni bui, densi di morti ammazzati e fatti tragici, in cui uomini specchiati come Ambrosoli pagarono con la vita la loro fedeltà allo Stato italiano, ricordiamo solo un paio di aneddoti, citati di recente da Ferruccio de Bortoli: Andreotti giunse a salutare Sindona, già benedetto come sincero anticomunista, come “un salvatore della Lira“.
Ma chi era in realtà Michele Sindona e perché l’indipendenza di Bankitalia non può essere messa in dubbio neanche oggi? Da una parte il mondo conosceva il volto pubblico, rampante ma all’apparenza pulito di Sindona, uomo potente con un affermato studio in Via Turati, nel cuore della Milano pulsante degli affari, uno speculatore capacissimo, spregiudicato ma vincente, capace di conquistare tutte le copertine patinate della stampa (pure La Repubblica ne subì il fascino in una fase iniziale, essendo all’oscuro delle origini della fortuna di Sindona) e, fra un accordo e l’altro, stipulava patti di grande successo, ma, dietro l’immagine di pubblico dominio Sindona nascondeva una seconda faccia, come un novello Giano bifronte, il volto oscuro del Potere. Solo Ugo La Malfa, l’indimenticabile capo del Partito Repubblicano italiano (PRI) ne aveva colto in pieno il pericolo: Michele Sindona era infatti, nella realtà, un affarista senza scrupoli, capace di costruire un impero acquisendo piccole realtà bancarie che versavano in enorme difficoltà e venivano messe insieme, manovrando nel sottosuolo un mondo buio e criminale la cui frequentazione alla fine gli costò la sua stessa vita. Alla fine dei ruggenti anni ’60, gli anni del boom economico in cui l’Italia galoppava a ritmi cinesi, Sindona aveva raggranellato un piccolo grande gruzzolo, oggi si direbbe un tesoretto: 40 milioni di dollari, un’enormità per quell’epoca in cui l’Italia, ex rurale, in piena industrializzazione post-bellica, emergeva dalla frugalità e si affacciava nel dorato mondo del benessere occidentale. Perfino le Bibbie del business anglosassone come Time e Business Week incensavano Sindona come un esempio da imitare, anche la politica italiana ne era ammaliata. All’apice del successo nell’alta finanza a stelle e strisce, il nostro Giano Bifronte arrivò a mettere le mani sulla 20esima banca d’America, entrando nel giro di un brillante avvocato conservatore, anch’egli astro nascente nel mondo politico americano, Richard Nixon, futuro Presidente degli USA (sì, quello del Watergate) e dei circoli oltranzisti di destra, il cosiddetto “partito del golpe”. Ma è un Cittadino al di sopra di Ogni Sospetto, apprezzato perfino da Montini (futuro Pontefice, col nome di Papa Paolo VI), che lo scelse come socio dello Ior. Parliamo dello Ior di Marcinkus, un uomo che (secondo Sindona) “s’illuse di diventare banchiere” senza averne le capacità. Fin dagli anni ’60, Sindona era amico di Licio Gelli, il creatore della P2, che, come dicevamo, avrebbe voluto spingere Sindona alle soglie del tempio del Potere, addirittura a capo di Bankitalia. Il giornalista Enzo Biagi fu uno dei primi a illustrarne ombre e luci. Sindona, che negava di coltivare progetti eversivi, non considerava Licio Gelli un filantropo, ma un anticomunista “sincero” dopo l’uccisione del fratello nella guerra civile di Spagna. Andreotti arrivò a definire Sindona come “un salvatore della Lira“. Questo era lo scenario che si presentava a un lettore distratto di giornali.
La caduta di Sindona fu repentina e rumorosa quanto la sua stellare ascesa e coincise con una recessione mondiale. Provocò un buco enorme, una voragine, il crac bancario insieme alla scoperta delle scatole vuote. Fu uno choc scoprire che Sindona fosse il banchiere della mafia. Lui, definito Uomo dell’anno dall’ambasciatore americano dell’epoca, si dichiarò un perseguitato. Quando Guido Carli affidò a Giorgio Ambrosoli il ruolo di Liquidatore Unico dell’impero di Sindona, prima apprezzò l’idea di distruggere quella rete malata, il puzzle dei crediti e debiti di quell’impero (connessioni fra la banca privata, i partiti politici, massoni, cardinali, capitali della mafia…), ma subito capì di essere solo. E Ambrosoli ancora più isolato.
L’indipendenza della Bankitalia fu l’unica ancora di salvezza per rompere questo intreccio di malaffare e criminalità. A farne le spese fu l’eroe borghese Giorgio Ambrosoli, ucciso freddamente perché si era rifiutato di farsi cooptare. Fu il primo di una serie di efferati omicidi, cui seguì il “caffè alla Pisciotta” che uccise Sindona. E poi la scoperta del cadavere di Roberto Calvi, trovato impiccato a una corda legata sotto il ponte dei Frati neri di Londra. Ma questa è un’altra storia.
La verità è che, senza Guido Carli e senza l’indipendenza della Banca d’Italia, la storia d’Italia sarebbe stata costellata di orrori (ed errori) ancora più funesti. Quindi, gettiamo l’acqua sporca, risolviamo urgentemente il nodo della gestione dei crac bancari, semplifichiamo e rendiamo efficiente la vigilanza (aver costretto la Pop di Bari a comprare la Banca fallita Tercas, imbarcando una mole eccessiva di crediti deteriorati Npl, non ha certo giovato, anche se è stata solo una delle tante negligenze, in una banca che taroccava i conti ad ogni livello). Ma non gettiamo il bambino con l’acqua sudicia. Lo dobbiamo anche solo alle memoria (condivisa) di Guido Carli e di Giorgio Ambrosoli. E alla messa in sicurezza del sistema bancario italiano, su cui pesa il debito pubblico, il vero macigno che impedisce al Paese di uscire dalle sue ricorrenti crisi.