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Dieci ragioni più una per votare NO

Una delle argomentazioni più eccentriche addotte a sostegno della campagna per il Sì al Referendum sul taglio lineare dei Parlamentari è stato espresso dal segretario del PD, Nicola Zingaretti: il sì sarebbe una diga contro l’avanzata di Salvini e Meloni (che per altro appoggiano il fronte del sì, nonostante il no del leghista storico Giorgetti). Quindi, pur di impedire alle destre di vincere, siamo disposti a tutto, magari anche a posticipare le elezioni sine die? No, la motivazione non regge. Ma ci sono altre dieci buone ragioni per votare NO, vediamo quali, in ordine d’importanza.

  1. Dicono che una vittoria del NO porterebbe su un binario morto qualsiasi percorso di riforma. Si tratta di un argomento privo di fondamento. Il Parlamento ha votato più volte riforme costituzionali che non sono state sottoposte a referendum confermativo ed altre che sono state bocciate alle urne (Riforma governo Berlusconi 2006 – Riforma governo Renzi 2016). Il M5S è stato votato in massa nel marzo 2018 per varare le riforme: ha ricevuto una valanga di voti sull’onda del cambiamento, della trasparenza, della partecipazione per cambiare regole e condizioni della democrazia. L’afflato riformatore è dunque immutato, ma non è sufficiente perché le regole vanno fatte a garanzia di tutti, dal momento che delineano le regole che determinano come si gioca quando si scende in campo. La voglia di cambiamento c’è e rimane alta, ma è il momento di decidere “come” fare le riforme, non “se” farle.
  2. In questi tempi bui del CSM dopo lo scoppio del caso Palamare, vogliamo ricordare che il Parlamento si occupa anche della nomina dei giudici del CSM e della Corte Costituzionale. Riducendo il numero di parlamentari che effettua quelle elezioni, la riforma, voluta dal M5S e oggi sostenuta dal PD (dopo una clamorosa inversione ad U quando il partito guidato da Zingaretti è entrato nel governo giallo-rosso del Conte 2), appoggiata anche da FdI e Lega, fa sì che i gruppi di potere e le lobby potranno selezionare più facilmente nomi graditi. I giudici rappresentano una delle garanzie d’indipendenza di un sistema politico-istituzionale: .asciare la loro nomina in mano a meno persone non aumenta la loro autorevolezza né la rappresentatività.
  3. Nessuno illustra con lucidità il perché del taglio (lineare) di 345 parlamentari: alla fine, tutti rispondono che sono troppi e fannulloni, come se allora non sarebbe meglio tagliarne 570 o 615. I paragoni del Parlamento col Congresso USA oppure con la Germania, dunque con sistemi federali, per sottolineare l’anomalia italiana, non reggono. Toti, Presidente della Regione Liguria, afferma che questo taglio deve essere un primo passo verso una Costituzione federale con il potere legislativo, suddiviso fra Bundestag (Camera ad elezione popolare diretta che accorda o nega la fiducia all’Esecutivo federale) e Bundesrat (Consiglio federale che rappresenta i singoli Stati, i Länder). Ecco, durante la pandemia voi avreste affidato le decisioni di tutti i cittadini italiani al Presidente della Regione Lombardia Fontana che ha dato il meglio di sé nel duo con Gallera o al Presidente della Regione Sardegna, detto il “Trota sardo” perché vantava una laurea conseguita nel New Mexico non riconosciuta dal Miur, il cui “talento è esploso insieme al terrificante numero dei contagi che, ad agosto, hanno seminato il panico sull’isola, e non solo” (copyright Fabrizio Roncone)? A parte le facili battute, la vera domanda è chiedersi: cosa fa il Parlamento? Emana le leggi che sono fonte di certezza, di legalità, di garanzia che esista una democrazia che decide. Ecco, forse, prima di effettuare un taglio lineare, sarebbe bene riflettere su cosa stiamo decidendo Conoscere oer deliberare rimane una priorità, soprattutto in era di Fake News.
  4. Quando si propone una riforma strutturale si dovrebbero usare argomentazioni solide e ben fondate. L’posto di quelle sbandierate da chi ha votato e/o difende il taglio dei parlamentari, i cui argomenti si limitano a un poker di frasi apodittiche: ridurre i costi e tagliare gente inutile; o si riforma ora o mai più;- era già stato proposto (e per altro per due volte bocciato); così fan tutti (negli altri Stati, paragonando l’Italia con stati federali e sistemi molto diversi). Si tratta di motivazioni deboli se non addirittura capziose: i costi sono costi di democrazia e partecipazione, e pochi conoscono tutte le attività di un parlamentare e le sue responsabilità; le riforme si sono svolte nel tempo, anche del dettato costituzionale, magari senza passare per il referendum confermativo; ciò che è ri-proposto non vanta un titolo di merito (inoltre una riforma organica prevede anche altro rispetto a un mero taglio lineare); paragonare sistemi di rappresentanza parlamentare differente disorienta i cittadini sul ruolo del parlamento anche in ogni contesto nazionale (se poi ci riferiamo al Parlamento Ue si può osservare che il suo ruolo è mutato nel tempo senza citare il numero di rappresentanti per Stato come condizione di riforma).
  5. Tagliare il Parlamento per risparmiare è come tagliare gli ospedali per risparmiare. La motivazione non tiene. Dicono che è per tagliare i costi, ma, durante la pandemia, avremmo evitato il lockdown se avessimo avuto le Terapie Intensive che l’Italia vantava negli anni ’80. Con un tracollo del PIL mai visto in epoca di pace, siamo sicuri di aver risparmiato? Il debito/PIL passerà dal 134% al 160% entro fine anno.
  6. Con un Parlamento ridimensionato, una qualunque lobby, associazione di categoria o qualsiasi portatore di interessi (stakeholder) potrà avvicinare un eletto velocemente; e dovendo avvicinare meno parlamentari, dovrà convincere meno persone limitandosi a trattative più ristrette. Impiegherà meno tempo e risparmierà impegno per informare l’opinione pubblica. Meno persone deciderann di più, in luoghi più ristretti. A farne le spese sarà la trasparenza. In un Paese più volte bocciato sul tema corruzione da Transparency Report.
  7. Una grave lacuna dell’attività parlamentare è la scarsa attenzione data alle proposte di iniziativa popolare. Quante volte si sono raccolte le firme per sollecitare l’azione legislativa, senza alcun risultato, perché tutto finiva su un binario morto? Un progetto di riforma (e non di taglio!) della rappresentanza diretta dovrebbe incidere su questo aspetto non marginale del coinvolgimento dei cittadini nell’azione politica. Rendendo effettivo l’art. 71 della Costituzione, uno dei meno attuati e considerati da sempre. Sarebbe fondamentale offrire spazio e forza ai cittadini, non di tagliare i Parlamentari.
  8. In questi decenni abbiamo visto eletti in Parlamento dediti a fare di tutto tranne che il loro mestiere di parlamentare. Un esempio per tutti: l’avvocato Ghedini, che più che il parlamerntare svolgeva il ruolo di legale dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Un avvocato che ha lavorato molto per il suo assistito, ma scarsamente per la carica che ricopriva in Parlamento. Ecco, tagliando il numero dei parlamentari, nulla dice che andrà a migliorare la qualità. Anzi, il rischio è che i partiti premino i più fedeli invece dei più bravi. Il criterio della fedeltà vincerò su quello della meritocrazia, perché la Sindrome del Cerchio Magico – a protezione del Capo – avrà la meglio. Neanche in economia Piccolo è Bello, fidatevi.
  9. Non è il numero di persone impegnate in una funzione specifica a determinare il risultato, ma la qualità dell’impegno profuso e la capacità di recepire segnali e idee che provengono dal Paese. Se il Parlamento non può contare su persone competenti, preparate e dedite all’impegno assunto, non può migliorare la qualità della democrazia. L’argomento del taglio dei parlamentari è insulso: nulla ci dice sulla selezione dei rappresentanti e nulla cambia nella qualità della rappresentanza, se, oltre al taglio, non inciderà una differente selezione della rappresentanza.
  10. I partiti forgiati dagli eventi della storia della nostra democrazia hanno abusato della rappresentanza per mettere a posto se stessi ed inquinare la rappresentanza. Sono gli stessi che ora ci chiedono di ripensare alla democrazia secondo i loro criteri. Intanto siedono in questo Parlamento e in tutto ciò che da esso dipende: nomine, incarichi e rappresentanza. Abbiamo ministri che hanno messo amici e famigli, privi di competenze, in un ministero tecnico. E quando i posti non bastano, perché non bastano mai in un Paese dove oltre 1,5 milioni di persone vive di politica, si piazzano comodamente su poltrone di società e municipalizzate che dipendono dalla politica. Quelle partecipate che pesano sul debito e nessuno osa tagliare. E tutto ciò, questo poco virtuoso andazzo, potrà cambiare tagliando l’espressione diretta del voto? Perché è appunto come si usa la democrazia che cambia tutto, non certo l’idea che la rappresentanza sia troppa e ingiustificata.

Loris Jep Costa e Mirella Castigli

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Il caso Regione Lombardia

A Bergamo i morti sono aumentati del +568% nel mese di marzo, mentre a Roma, in piena pandemia, diminuivano di oltre -9%. Incremento a tripla cifra anche a Cremona (391%), a Lodi (371%), a Brescia (291%), a Lecco (174%), Pavia (133%) e a Mantova (122%). In questo tragico scenario, in un’intervista il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana ha affermato che rifarebbe tutto ciò che ha fatto. Nessun rimpianto. Nessun rimprovero. Non cambierebbe di una virgola la strategia che, senza la zona rossa di Alzano Lombardo e Nembro, ha portato a un’impennata delle vittime nella regione locomotiva d’Italia.

L’inefficienza della Regione Lombardia non può lasciare nessuno indifferente. Inefficienze che si sono sommate a conflitti istituzionali. Il tentativo di fare l’italico scaricabarile. La rete assistenziale sociosanitaria dei territori, smantellata dalla riforma sanitaria di Maroni che seguiva quella faraonica di Formigoni, ha creato le premesse per la Caporetto lombarda: i pazienti si recano in pronto soccorso invece di andare dal medico di base. Non c’è coordinamento tra i medici di base, l’ospedale e l’Ats. Ma, in particolare, l’ente Regione non ha saputo proteggere la sua vera eccellenza: il personale sanitario mandato a combattere a mani nude, senza mascherine e senza dispositivi adatti, un virus già insidiosissimo e pericoloso.

È la Lombardia la Regione dove sono morti più medici di famiglia. Un’ecatombe di personale sanitario che grida vendetta, dal momento che i medici e gli infermieri lombardi sono la vera ricchezza della sanità regionale, e non certo il sistema sanitario lombardo che, dopo le riforme di Formigoni (in carcere) e Maroni, è ormai un gigante dai piedi d’argilla. Nessuno contesta l’eccellenza di alcuni poli privati, ma la rete territoriale si è dimostrata un colabrodo. La Regione Lombardia non ha neanche ringraziato gli ospedali tedeschi che hanno salvato tanti cittadini lombardi, per fortuna lo ha fatto il Sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

Manca la rete di coordinamento tra l’Ats e le amministrazioni. Ma l’Ats di Bergamo ha pagato quasi 16 mila euro un principe del foro per accusare i medici di base, gli eroi vittime di questa ecatombe, invece di destinare questa cifra per fare più tamponi e più test diagnostici, salvando più vite.

Le RSA lombarde si sono trasformate in trappole per anziani. La Lombardia vanta il poco invidiabile primato del tasso peggiore di mortalità per 100 residenti nelle strutture Rsa con 6,7%, contro il 4% dell’Emilia-Romagna.

In Lombardia da decenni il sistema privato corregge le inefficienze del pubblico e le minimizza. In Lombardia si curano ogni anno 160mila cittadini di tutte le regioni italiane, ma non ha poi saputo offrire posti in terapia intensiva ai suoi cittadini in carenza di ossigeno.  Come scrive Loris Jep Costa su Facebook “Si è invertito lo schema dell’ottimo paretiano: è il privato che corregge gli squilibri generali e sopperisce alle mancanze del pubblico.

Se le Regioni non rendono servizi e costano molto al cittadino significa che l’intermediazione della spesa pubblica è fatta male, è inefficiente e causa di squilibri. In Italia mancano le risorse per i servizi pubblici, che per numero e qualità sono diminuiti, che lo Stato eroga malamente al cittadino perché non alloca al meglio le risorse di cui dispone.

“La domanda a questo punto è la seguente: non è che gran parte dei problemi del Nord sono proprio legati ad una cattiva amministrazione piuttosto che all’idea che maggiore autonomia e federalismo siano una soluzione praticabile?”.

La risposta spetta ai cittadini lombardi. Se il Veneto ha affrontato la pandemia con serietà e pragmatismo, affidandosi alla competenza di un luminare della medicina, il virologo Crisanti, alle zone rosse e al metodo scientifico, ciò non è accaduto in Lombardia, una Regione che – a differenza del Veneto che vanta una rete territoriale ospedaliera di tutto rispetto -, aveva invece smantellato la sua prima linea, trovandosi del tutto esposta al Nemico Invisibile e impreparata a gestire uno Tsunami. Le cifre parlano chiaro: il disastro lombardo è innanzitutto un fallimento politico. Una débâcle che arriva da decenni di malgoverno della Lombardia.

Morti/milione di abitanti (dati alle 3:37 am del 22 aprile 2020):

Lombardia 1258

Stato di New York 1004

Belgio 518

Spagna 479

Italia (totale) 408

Francia 319

U.K. 255

Italia (senza Lombardia) 241

Olanda 219

Svezia 175

Svizzera 171

Irlanda 148

Stati Uniti 137

Dati – dati – dati. Se alla scienza togli i dati, affidabili e certi, cosa resta del metodo scientifico?

Uno studio dell’Università di Bergamo sta cercando di ricostruire il numero di morti per Coronavirus nella provincia, uno dei focolai più colpiti d’Italia, usando non i dati ufficiali, ma il numero di necrologi pubblicati sull’Eco di Bergamo. Oggi un altro giornale locale riporta un articolo secondo cui l’Avis di Castiglione D’Adda (Lodi, altro focolaio del cosiddetto Paziente 1, il signora Mattia) ha rilevato che il 70% dei donatori di sangue sarebbe risultato positivo al Covid-19. Non parliamo poi del controverso rapporto dell’Imperial College che ha svolto un apparentemente “brillante”, quanto “indecifrabile” Reverse Engineering sui dati in possesso, attraverso un cammino a ritroso, dall’indice di letalità alla platea dei contagiati: “uno studio scolastico che non tiene conto delle specificità nazionali, della demografia (età), degli eventi particolari (gli ospedali che hanno fatto da incubatori)”, mi ha fatto notare un giornalista esperto di dati. Aver dato per buono l’indice di letalità (anche se i dati ufficiali sembrano convergere: ma quali dati ufficiali, quelli cinesi, che la CIA ha definito del tutto inaffidabili? Quelli italiani, dove i test sono stati fatti solo ai pazienti con sintomi relativamente gravi e non sono stati fatti i tamponi nemmeno ai defunti?) è già un salto nel buio: un professore di Statistica del Politecnico di Milano mi ha scritto: “Per essere affidabile occorrerebbe un criterio uniforme per imputare le morti al Covid-19, e già questo manca” (basta guardare alla discrepanza fra Italia e Germania, “troppo accentuata a prima vista”, nonostante alcune spiegazioni finora illustrate: l’ampia disponibilità di ICU in Germania – mentre in Lombardia l’alto numero di perdite è da attribuire anche alla carenza di posti in terapia intensiva rispetto alla domanda -, lo stile di vita degli anziani tedeschi, che vivono vite più separate rispetto ai giovani e ai nipoti, mentre in Italia pesa la co-residenza di anziani e giovani nella famiglia allargata italiana oltre alla frequenza di contatto fisico nelle interazioni sociali).

Lavoce.info ha osservato che il numero di pazienti ospedalizzati è più che quadruplicato, mentre il numero di pazienti in terapia intensiva è solo più che triplicato. Vuol dire che il rapporto fra ospedalizzati e pazienti in Terapia Intensiva dovrebbe essere rimasto costante, mentre nella realtà ha subito un andamento decrescente.

Inoltre, le morti da Coronavirus dichiarate in Italia sono state sottostimate? In un primo tempo, sembravano sovrastimate, ma poi (e l’ultima analisi, per quanto “ingegnosa” dell’Università di Bergamo, lo confermerebbe) è stato appurato che non è stato effettuato il tampone ai tantissimi morti in casa o nelle case di riposo: le dichiarazioni di morte per Covid-19 sono irrealistiche e sottostimate.

Il punto dolente è che mancano i dati. Gli unici dati certi sono il numero di ospedalizzati e di persone in Terapia Intensiva (TI o ICU), mentre i dati di contagiati e morti sono sottostimati, non affidabili e non accertati, se non in parte.

Gli scienziati, senza dati certi ed affidabili, raccolti seguendo il metodo scientifico, brancolano nel buio. I dati da “prendere con le molle” rappresentano un vulnus al metodo scientifico: un singolo numero, in un processo a ritroso, può far saltare tutte le stime.

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Torniamo al tema di partenza: il metodo scientifico, che coniuga l’osservazione sperimentale con la costruzione di un linguaggio coerente e rigoroso, ha bisogno di dati, affidabili e certificati, al fine di garantire sempre la riproducibilità e la verificabilità delle osservazioni su cui i processi di acquisizione teorica si basano. Nel Discorso sul Metodo, Cartesio parla dell’evidenza e della necessità di accogliere solo le conoscenze chiare e distinte. Ma qui sembra che ci costringano a tornare indietro di secoli: pare che si debba tornare al naturalismo antico e medievale, dove l’indagine si fonda dell’osservazione, diretta o indiretta, delle proprietà empiriche in condizioni naturali: dov’è la razionalità, dove sono i criteri generali di razionalità ed obiettività, dove la significatività e la comunicabilità? In che misura sono garantite le condizioni del metodo sperimentale per verificare determinati fenomeni al fine di sottoporre a controllo (confermandole o al contrario smentendole con una confutazione) le previsioni teoriche? Ma soprattutto come possiamo procedere all’elaborazione statistica dei dati raccolti nella misurazione di determinate grandezze, al fine di stabilirne il valore più probabile con il relativo intervallo di indeterminazione (o errore di misura), se i dati raccolti sono incompleti?

Rimane un vulnus nello studio di questa pandemia: non aver raccolto tutti i dati, non aver saputo mettere a punto un campione significativo, non aver identificato un bias che servirebbe a stimare, per esempio, la percentuale di positivi asintomatici nella popolazione.

Un ingegnere mi ha spiegato che non si è fatto alcuno sforzo di “normare” un metodo di selezione dei campioni statistici da misurare e ciò comporta un’inevitabile conseguenza: senza un metodo, chiunque otterrà i dati che fanno comodo per sempre. “Sembriamo quelli che commercializzano tessuti vendendoli a lunghezza, ma ogni sartyo utilizza, come “metro”, un pezzo di legno trovato in giardino”: non ha senso. E conclude: “Tanta enfasi sugli asintomatici, ma non si capisce perché non si decida di scegliere un campione di un migliaio o due mila persone apparentemente sane, per capire quanti siano i ‘malati silenti’… Senza un dato sui tamponi, valutato in modo statistico, chiunque può scrivere ciò che vuole al denominatore, ma a quel punto l’indice di letalità diventa un’incognita”.

Ecco, oltre ai troppi morti e alle famiglie dei defunti (che neanche hanno potuto dare l’estremo saluto ai propri cari), oltre a 3,5 miliardi di persone (metà della popolazione mondiale!) in quarantena, c’è un’altra illustre vittima in questa pancemia del XXI Secolo: il metodo scientifico. Che non è il tabellone di un flipper, ma la modalità con cui la scienza procede, attraverso la fese induttiva e deduttiva (il principio di falsificabilità di Popper), per raggiungere una conoscenza oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile. Ma tutto ciò è possibile se si raccolgono i dati in maniera rigorosa. Dati, dati, dati.

L’appello dei 150 accademici e scienziati per raccogliere dati trasparenti, indagini demoscopiche su camipioni, tracciamento dei contagi è già un importante passo avanti.

@CastigliMirella

Serve un Commissario UE alle Finanze. Chi, se non Mario Draghi?

La Commissione europea dovrebbe avere un Commissario UE alla Finanze. Mario Draghi sarebbe il candidato ideale

La lettera inviata al Financial Times da Mario Draghi, ex Presidente BCE, ex Bankitalia, mostra che i tempi sono maturi. L’Europa è in grave difficoltà, mentre il Presidente Trump ha varato un piano da 2 trilioni di dollari, che va a sommarsi all’intervento della FED, per superare l’emergenza da Coronavirus, la pandemia che potrebbe innescare una recessione su scala globale e una Grande Depressione per chi non corre ai ripari.

L’Unione europea (UE) sembra paralizzata dai 27 egoismi nazionali, mentre gli Stati si incartano in proposte considerate irricevibili dai vicini: gli Eurobond sono stati rifiutati dalla Germania di Merkel che fa gruppo con i Paesi del Nord, mentre sono guardati con favore da nove Stati europei, Belgio compreso, capitanati dalla Francia di Macron, l’Italia di Conte e la Spagna di Sanchez, i Paesi fra l’altro più colpiti dalla pandemia. Solo l’Italia ha registrato un terzo delle morti mondiali per Coronavirus.

Questa volta la crisi non è stata innescata dai conti in disordine di uno Stato, dal momento che, al netto degli atavici errori italiani (la spesa improduttiva per foraggiare Alitalia, Atac, un centinaio di inutili partecipate, Quota 100, un Rd mal disegnato e mille sprechi in ogni direzione), l’Italia si è presentata con un deficit/Pil all’1,6%, di tutto rispetto anche agli occhiuti falchi tedeschi, olandesi e finlandesi.

La soluzione, ha spiegato Mario Draghi al Financial Times (FT), è non considerare il debito un tabù e varare subito una nuova politica economica dal momento che “siamo in guerra e se esitiamo i costi saranno irreversibili”. L’Europa dovrebbe ripensare un modello di sviluppo investendo in maniera incisiva nei settori strategici. Per questo motivo gli Eurobond (battezzati in un primo tempo Coronabond) sarebbero lo strumento principe. Fra l’altro, lo smart working e la scuola digitale hanno messo in luce l’urgenza della banda larga e ultralarga, oltre a investimenti nella sanità (in Italia l’epidemia ha messo in luce l’assenza di posti in Terapia Intensiva, ICU) e nelle infrastrutture.

La crisi in atto ha dimostrato che è giunta l’ora di avere un Commissario UE alle Finanze. E il candidato ideale per essere nominato “ministro europeo” delle Finanze sarebbe Mario Draghi, colui che salvò l’euro nel 2012 pronunciando le tre celebri parole (“Whatever it takes”, a qualsiasi costo) e mettendo a punto una strategia efficace, con umiltà, pragmatismo e coraggio, dimostrando che alle parole sarebbero seguiti i fatti.

Dunque, in Europa è giunta l’ora di trovare un accordo fra Stati per integrare il trattato di Lisbona, istituire la figura del nuovo Commissario europeo alle Finanze, in modo da innescare processi di maggiore convergenza, portando la governance dell’Eurozona su un binario finalmente solido perché rafforzerebbe il coordinamento istituzionale con la BCE, superando le difficoltà incontrate durante l’implementazione dell’Unione bancaria. In prospettiva, ciò avrebbe un forte impatto anche sulle dinamiche di tax roll e sarebbe un primo passo nella direzione dell’Unione Fiscale.

La pandemia, con il suo tragico carico di vittime e di crisi economica dovuta al lockdown, è un’ultima chiamata per l’Europa, dopo gli errori commessi da Lagarde (superati con l’intervento incisivo della BCE) e la risposta sbagliata del Presidente von der Leyen, due donne che non si sono dimostrate all’altezza della situazione, ma che possono dimostrare di imparare la lezione, per voltare pagina e costruire un’Europa più solidale e unita in grado di affrontare le sfide di una Grande Depressione che, finito il contenimento, rimane pericolosamente in agguato. Il vero spettro che s’aggira per l’Europa. Il momento del coraggio è adesso. Mario Draghi ha le idee chiare e la capacità di persuasione tali da far capire a tutti quali rischi corriamo se non facciamo la cosa giusta ora. Prima che sia troppo tardi, perché nessuno si salva da solo, come hanno detto Papa Francesco e il Presidente Mattarella, sulla scia delle evocative esortazione di Draghi.

La caduta del mito dell’eccellenza lombarda

La colonna di mezzi militari porta via i feretri da Bergamo da destinare a crematori fuori regione, dopo aver ammassato bare nelle Chiese

Tutto ebbe inizio probabilmente a inizio gennaio nella regione più progredita d’Italia, con più legami finanziari e rapporti economici con Germania e Cina, la ricca Lombardia, la locomotiva d’Italia, nella seconda manifattura d’Europa. Lì forse si annidava il focolaio, nel bergamasco, quando si decise di far giocare due partite: Albino – Codogno (partita, girone B, giocata il 9 febbraio) e Atalanta – Valencia (coppa Uefa, il 19 febbraio, giocata a Milano). Il triangolo delle Bermude italiano – Val Seriana, Bergamo, Milano – che esporta il Coronavirus nel focolaio spagnolo di Valencia (poi la Spagna farà il patatrac festeggiando a Madrid l’8 marzo in piazza).

Il Coronavirus in Italia è quasi sotto controllo, con percentuali in linea con l’Europa e perfino con la Germania. Ma è in Lombardia che il tasso di mortalità raggiunge percentuali a doppia cifra.

Nell’analisi quantitativa dei fenomeni, quando un aggregato di dati è fortemente anomalo rispetto agli altri, esso deve essere scorporato e messo sotto la lente, proprio al fine di svolgere un’analisi corretta. Quindi, procediamo, esaminiamo il caso lombardo.

In Lombardia si contano più morti di Covid-19 che in Cina e Stati Uniti messi insieme. Cosa sta succedendo nella regione della capitale morale d’Italia?

Gli Stati Uniti sono riusciti ad acquistare in Lombardia mezzo milione di kit per individuare il contagio. Li hanno trasferiti a Memphis con un aereo cargo militare. Da Brescia, la Leonessa d’Italia, una città con 7300 contagiati e oltre mille morti.

Ma com’è possibile che un’azienda bresciana sia stata legittimata a vendere a prezzo di mercato tamponi agli USA, quando l’ISS, seguendo le direttive OMS (il cui Tweet “test – test -test!” ha fatto scuola nel mondo), preme per far effettuare tamponi sui sintomatici? L’azienda bresciana ha spiegato di aver venduto i kit diagnostici all’America di Trump perché la Regione Lombardia non era in grado di processare i test. La Germania sta effettuando 500mila tamponi a settimana, come ha spiegato l’eurodeputato e medico tedesco Liese. Nel nostro Paese, dall’inizio dell’epidemia, ne sono stati fatti poco più di 320 mila, ma il numero dei test non corrisponde al numero di persone sottoposte a tampone (perché una persona fa più test). L’Italia fa tamponi soltanto ai sintomatici, e in diverse regioni come la Lombardia soltanto a chi presenta sintomi sopra una certa gravità.

Ma non sono gli unici interrogativi rimasti inevasi nella Lombardia con 37mila contagiati e 5400 morti (dati 27 marzo 2020) ovvero la Regione, lo ripetiamo, con più morti di Cina e USA messi insieme.

Un’altra domanda non ha ricevuto ancora risposta. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) aveva chiesto di fare una zona rossa nella Bergamasca, dove era stato individuato un focolaio nella zona di Alzano Lombardo e Nembro. Ma la Regione Lombardia dice che la risposta del governo non è mai arrivata: perché non è stata sollecitata? Perché la Lombardia è arrivata ad aver una mortalità del 10%, quando il tasso di mortalità nel mondo è meno della metà?

In poche parole: cosa sta succedendo davvero nella regione Lombardia,  dove 310 contagiati si annidano solo fra infermieri e medici all’ospedale di Brescia. La sanità lombarda è un’eccellenza. Ma la regione, in piena pandemia da Coronavirus, pur vantando eccellenze che il mondo ci invidia, non ha un sistema di prossimità e di presidio territoriale. La regione non fa i tamponi a chi presenta sintomi sospetti (ma solo oltre una certa gravità), disattendendo le prescrizioni dell’ISS e  la raccomandazione “test – test – test!” dell’OMS. L’Emilia-Romagna. grazie a una sanità capillare, sta migliorando a vista d’occhio.

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